articolo di Daniel Amit
Qui a Gerusalemme abbiamo vissuto questa guerra di distruzione del Libano con grande angoscia e frustrazione. È apparso subito chiaro che questo orrore era stato premeditato.
Non è stato minimamente conseguenza dell'incidente di frontiera in cui sono stati catturati i due militari israeliani. È stato invece lanciato con la palese connivenza (materiale e politica) degli Stati uniti e dalla Gran Bretagna (il cosiddetto «asse del bene»).
Eppure, le forze pacifiste si sono trovate per lo più paralizzate. La manifestazione più grande ha radunato 2000-3000 persone. I massimi portavoce di quel movimento - come Yehoshua, Grossmann, Oz, Sobol - così come il movimento Peace Now, si sono lasciati convincere ad assumere, dopo tanto tempo, il ruolo di «violenti giusti» dalla parte del potere e del consenso nazionale.
Un partito laburista allo sbaraglio
Non minori sono stati la confusione e il disorientamento creati dal partito laburista, secondo partito della coalizione. Questo partito era stato eletto con alla testa Amir Peretz, leader sindacalista, pacifista, con un'agenda la cui massima priorità era la situazione sociale, che proprio oggi ha raggiunto (secondo il rapporto dell'Istituto della previdenza sociale) nuovi massimi di tassi di povertà. Eppure, il governo ha votato tagli alla spesa sociale (per finanziare la guerra) con i voti dei laburisti. E Peretz, ministro della difesa, ha assunto fin dal primo istante un atteggiamento estremamente bellicoso.Questa combinazione tra una vita da oppositore anti-guerra e la necessità di ottenere una legittimità maggioritaria, è una miscela politico-psicologica micidiale.
Il nuovo ruolo dell'Italia
In questo contesto per la prima volta nella memoria israeliana, l'Italia è finita al centro dei notiziari e molto ben vista dagli ambienti governativi. Tanti bollettini richiamano le parole del ministro degli esteri italiano e del rapporto speciale che si è venuto a creare tra lui e la sua omologa israeliana. Tutto questo in un ambito in cui Israele interpreta il ruolo dell'Onu come un garante degli obiettivi militari mancati dalla violenza militare.
Ma le notizie dal fronte pacifista italiano, sempre da lontano e attraverso internet, testimoniano di una sindrome simile a quella della sinistra israeliana. Sembra una corsa al sostegno del ruolo italiano nel sud-Libano come forza militare sotto l'egida dell'Onu. Da un lato appare una rivincita sul ruolo italiano umiliante, e assai controverso, in Iraq, in Afghanistan, in Kosovo. Le considerazioni politiche della guerra e del dopo-guerra nel Libano sembrano del tutto assenti. L'unica cosa che si propone come giustificazione di quella esultanza è il fatto che l'intervento militare (perché di intervento militare si tratta) è coperto dalla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza. Sembra proprio quella tipica euforia legata al rovesciamento dei ruoli: eravamo in forte opposizione alla presenza militare italiana in Iraq perché non era sancita dall'Onu. Ora stiamo orgogliosamente a favore perché i nostri sono al governo, e l'Onu siamo noi.
Ma questo ragionamento rischia di incappare in un errore logico. Essere contrari a un intervento militare non sancito dall'Onu è un dovere categorico. Esso non implica minimamente che sia giustificato sostenere (in modo acritico) un intervento militare votato (in extremis) dal Consiglio di sicurezza. Il ruolo dell'Onu in questo conflitto è quantomeno ambiguo. Se l'Onu fosse intervenuta tempestivamente dopo l'inizio dell'attacco, puntando sull'offensore (Israele) e sui complici (Stati uniti e Gran Bretagna) e imponendo un cessate-il-fuoco e un ritiro immediati, con pagamento dei danni, e minacciando sanzioni in caso di omissione, si sarebbe guadagnata un minimo di fiducia.
Il silenzio di Kofi Annan
Invece l'attacco è stato fatto proseguire per 33 giorni, con flusso continuo di materiale bellico dagli Stati uniti, con la Rice che definiva gli obiettivi e Blair che li giustificava. Inoltre, le esternazioni del segretario generale Kofi Annan, in visita in questi giorni nella regione, dimostrano apertamente che il ruolo concepito dalla massima autorità dell'Onu non è ristabilire un ordine internazionale decente. Annan non critica nessuno; richiede la liberazione dei due militari prigionieri israeliani, obiettivo mancato della guerra, ma non menziona i detenuti libanesi nelle prigioni israeliane (e ce ne sono parecchi), né la gravità della violazione (che persiste) dell'integrità territoriale del Libano; né il fatto che durante le ultime settimane sono stati uccisi più di 200 palestinesi nella striscia di Gaza; né del fatto che una gran parte del sistema governativo palestinese, democraticamente eletto, è stato rapito da Israele (formalmente parlando).
Una deflagrazione inevitabile
Sembra sempre più logico attribuire all'Onu e al suo segretario generale il ruolo di «interprete» per coloro che sono militarmente più forti. E l'Europa, che si vanta di aver trovato il suo ruolo di autonomia in politica estera, purtroppo si presta al ruolo di foglia di fico in questo schema. Il problema è che questo sviluppo non rappresenta solo la mancata realizzazione di un ideale di rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani (il che non sarebbe poco), ma che soprattutto costituisce una ricetta di instabilità foriera di una prossima deflagrazione, che in Israele è considerata ineluttabile.
Tutti questi argomenti non toccano molto la gente al potere, purtroppo. Loro fanno i debiti calcoli di rischi e benefici. Ma da qualche parte dovrebbero essere preservata una dimensione di autonomia, che confronti la realpolitik della nostra epoca con uno specchio critico senza compromessi, e che continui a pensare soluzioni giuste e durature ai conflitti internazionali