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L'irlandiano rimpatriato

Ultimo Aggiornamento: 29/01/2008 20:54
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21/05/2007 03:35
 
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Torino...
Strade che s'incrociano ad angolo retto. Poche curve, poche rotondità. Anche
le piazze sembrano disegnate da una mano geometrica, da una mente razionale
che bada al sodo, all'essenziale. Ampi corsi che tagliano la città da parte
a parte, cambiando nome. Le case, in centro, disegnano perimetri
quadrangolari, seguono il contorno degli isolati, delimitano cortili interni
di cemento con garage e qualche albero stento. In periferia, invece, gli
edifici assomigliano a giganti a due dimensioni, solitari e grotteschi.


Il cuore della città è barocco, composto e algido. Si cammina per strade
racchiuse da portici grigi intonati al colore delle case. Il grigio scuro è
dovunque. Nei balconi, nella pietra, nel colore del cielo. Fuori dal
perimetro del centro lo
stile architettonico cambia. Vicino a Porta Susa, eleganti palazzine
umbertine danno il benvenuto al ventesimo secolo.


Del periodo fascista, è rimasto poco. Solo qualche costruzione plumbea che
il tempo ha reso simile ai fantasmi delle fabbriche ribattezzate, con
umorismo sinistro, "archeologia industriale". I buchi della guerra sono
stati tappati, restano solo pochi tetti sbrecciati e alcune rovine che non
si sa se imputare all'incuria o ai bombardamenti.


Gli anni '60 irrompono davanti al Palasport, dietro Porta Palazzo e sul
corso che porta verso la Francia. Cingono la città d'assedio come se
seguissero un piano prestabilito. Sono casermoni a nove piani, con ingressi
umili o falsamente sfarzosi, una selva di cognomi che s'addensano sul
citofono, ascensori stretti e famiglie con pochi bambini.


Si distinguono quasi solo per i numeri civici. Sembrano riflettersi l'uno
negli altri, quasi orgogliosi del loro anonimato.


In fondo, la periferia che sfuma nei comuni vicini, fatti di altri centri
storici, quartieri intermedi e ghetti residenziali. Cavalcavia, tangenziali,
campi verdi quasi incongrui, spazi vuoti popolati da gru e scheletri di case
in costruzione.

La città è tagliata da fiumi. Un fiume grande e altri minori che
affluiscono. Dall'alto appaiono come serpentine capricciose che la mano dell'uomo
ha domato e piegato alle sue esigenze, cogli la loro posizione e il
significato, un luogo adatto a un insediamento. Dietro il fiume le colline.
Dall'altro lato, lontane, le montagne disposte a semicerchio, alte e
innevate. In mezzo, la pianura. Sulla pianura, la città attraversata dai
fiumi.


Questa città ha un nome. Ha un cuore che batte debolmente. E' ignara di sé,
lontana, indifferente, fredda come le sue montagne. Accoglie chi viene da
lontano senza odio e senza amicizia, con una punta di fastidio.
E' difficile da amare, protegge i propri segreti fino a farli quasi
scomparire. Esprime rapporti fondati sulla consuetudine, sul riserbo, su una
discrezione che è diventata leggendaria.


Genera anticorpi violenti e disperati che si aggrumano nei quartieri
perduti e nel mercato, che riempiono l'atroce carcere irto di porte e
passaggi, vive la sua composizione meticcia come una sciagura ineluttabile,
una separazione necessaria.

E' una città basata sul lavoro. Si lavora molto, si parla del lavoro, ci si
lamenta della mancanza di tempo libero, ma il tempo della libertà è vissuto
come un lavoro, viene organizzato e pianificato come un appuntamento d'affari.
Non si sa oziare. L'ozio è un privilegio da emarginati che hanno bisogno di
alcool o di eroina per ritagliarsi uno spazio di assenza.


E' una città che teme il ridicolo come la peste. Bisogna fare "bella figura",
essere bravi, professionali, versatili, saper gestire, saper manipolare,
portare gli altri sulle proprie posizioni. Si ostenta poco il denaro e i
beni materiali, l'ostentazione è ritenuta grossolana, poco fine, troppo
latina.


E' una città dell'Occidente del mondo, un occidente mitteleuropeo ignaro del
mediterraneo.

E' una città che non appartiene a nessuno, neanche a chi l'adora.



Cerea.
--
Giovanni
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