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"Fermare Israele" ?

Ultimo Aggiornamento: 10/04/2007 11:18
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Da Repubblica di oggi - La polveriera mediorientale
ANCORA tre anni fa la regione che va dal fiume Indo alla città di Gaza pareva avviata, nei piani e negli auspici dell'amministrazione Bush, ad una trasformazione pacifica verso la democrazia e la cooperazione internazionale. Ieri sera quella stessa area sembrava in preda ad una di quelle convulsioni generali con le quali la storia abroga un ordine decrepito e prepara i sommovimenti grandiosi e cruenti che segneranno la nascita del nuovo. L'epicentro dello scossone era il confine tormentato tra Israele e il Libano, lì dove il movimento sciita Hezbollah, filo-siriano e soprattutto filo-iraniano, ieri ha rapito due soldati di Tshahal. Hezbollah ha annunciato che la vita dei due ostaggi era negoziabile con la libertà di palestinesi detenuti in Israele. Il governo di Ehud Olmert l'ha considerato un atto di guerra ed ha risposto di conseguenza: con operazioni militari in territorio libanese per scovare e liberare i due prigionieri. Ma a sera Israele non era riuscito nel suo progetto. Si trovava anzi risucchiata in una mischia cruenta e sotto un doppio scacco, ricattata sia da Hezbollah sia da Hamas, che da giorni nasconde un terzo soldato israeliano, anch'egli ostaggio negoziabile.

Origine d'un braccio di ferro pericoloso perché di difficile soluzione, il rapimento dei due soldati forse non appartiene soltanto alla sempre più concitata dinamica del conflitto israelo-palestinese, ma potrebbe rimandare all'attivismo dell'Iran, subentrato ai siriani nel ruolo di primo sponsor di Hezbollah. Da tempo il presidente iraniano Ahmadinejad si prospetta ai palestinesi come il loro vero protettore, e l'unico in grado di vendicarli con le sue atomiche al momento virtuali. Questa retorica ha reso Ahmadinejad enormemente popolare in Medio Oriente, molto più di quanto non lo sia in patria; da tempo ha soppiantato Osama bin Laden nei cuori dell'estremismo arabo. Il colpo messo a segno ieri da Hezbollah giova alla sua influenza nell'area.

Che la milizia dei libanesi sciiti abbia agito o no su richiesta di Hamas, l'intromissione le permette di accrescere il proprio credito nel West Bank e a Gaza, soprattutto a detrimento del presidente dell'Autorità palestinese, il saggio e solitario Abu Mazen. Le voci sulle possibili dimissioni di quest'ultimo ieri sera pareva quasi confermare che gli spazi per la politica e la ragionevolezza ormai sono minimi.

L'intera regione sembra quasi rassegnata a questa deriva raggelante. Malgrado si sforzi di fermare la guerra civile, domenica a Bagdad è successo qualcosa di incredibile perfino per gli standard dell'orrore iracheno. In seguito ad un attentato contro una moschea sciita, una grossa milizia, presumibilmente anch'essa sciita, per cinque ore ha preso il controllo d'un quartiere, stabilito posti di blocco e assassinato una cinquantina di giovani, la cui unica colpa era d'avere un nome sunnita.

Accadeva nella capitale, a pochi minuti di macchina dalla "Zona verde", il quartiere fortificato dove si riunisce il governo iracheno, ultimo simulacro della nazione. Durante quelle cinque ore nessuno è intervenuto per fermare la strage. Né la polizia né i soldati americani. Se queste sono le forze che dovrebbero fermare la guerra civile, si può dare per certo che ormai non vi sia più alcuna possibilità di evitare la spartizione etnica - provincia per provincia, distretto per distretto, quartiere per quartiere - dell'Iraq quasi defunto.

Anche di questa partita l'Iran è il grande vincitore. Teheran ha strumenti affilati per rafforzare la propria influenza su una fetta della Mesopotamia, e può ragionevolmente progettare di cacciarne a pedate gli Stati Uniti. Ha smascherato il penoso bluff dell'amministrazione Bush, che per tre anni ha finto di studiare un attacco militare quando invece non ne aveva alcuna intenzione, e adesso ride in faccia agli occidentali, che a giorni alterni intimano o supplicano Ahmadinejad di accettare un compromesso sul nucleare. Ma se l'eccesso di fiducia del regime divenisse scoperta tracotanza, Washington finirebbe per reagire, per una irrevocabile questione di prestigio.

E poi l'Afghanistan, dove gli aiuti pakistani e gli errori americani hanno permesso ai Taliban di rientrare in gioco. E il Pakistan, sempre più tentato dal vecchio trucco, rovesciare oltreconfine le proprie tensioni interne per evitare d'implodere. E l'India, l'altro ieri insanguinata da sette bombe su altrettanti treni di Bombay. Ma la grande convulsione che percorre la terra dell'islam e del petrolio dal Mediterraneo fino al Punjab non riesce a impaurire davvero l'elefante indiano. Malgrado gli attentati, ieri la Borsa indiana guadagnava il 3%. Le ragioni erano tecniche, ma quella flemma sorprendente (dopo decine di morti, quale mercato finanziario avrebbe reagito allo stesso modo?) pareva quasi rappresentare la serenità con la quale i nuovi protagonisti della storia assistono alle convulsioni del vecchio ordine. Un ordine nel quale americani ed europei fino a ieri erano in varia misura influenti, decisivi. Adesso sembrano soprattutto impotenti. Non sanno più cosa fare. E non hanno molte idee con cui rimpiazzare quella trovata bushiana che s'intitolava "il Grande Medio Oriente". Prometteva un contagio democratico da Gaza a Teheran. Non è andata in quel modo.

(13 luglio 2006)
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