PUNTATA NUMERO 21
Sono in Italia, in vacanza. Già questa frase è in sé contraddittoria, o meglio, lo sarebbe stata alcuni anni fa. Che significa in vacanza in Italia, visto che sono italiano???
E me l’hanno fatto notare indirettamente gli amici di un tempo, sorridendo alla mia ingenua risposta su che ci faccio qua: “Sono in vacanza in Italia”.
Questo essere in vacanza in Italia significa che l’Italia non è più il mio posto.
A darmi una quasi certezza è stata la sensazione di disagio, di confusione e spaesamento che mi ha preso sabato sera a passeggiare per le vie di una città vicina, per giunta nella zona dove lavoravo prima di lasciare l’Italia.
È una sensazione strana, allucinante, per niente bella.
Se sei in un posto nuovo ti guardi attorno curioso. Se sei nel solito posto tiri dritto senza fare attenzione.
Nuovo e vecchio nel mio caso hanno perso di significato, o forse si sono fusi assieme.
Non erano né nuovi né vecchi i posti dove passeggiavo, erano qualcosa di diverso: estranei.
Erano una realtà che è stata la mia e non lo era più, ma che non potevo guardare con curiosità.
Era un cibo di cui ho fatto indigestione e che a distanza di anni non riesco ancora (più???) a mangiare.
È terribile perdere il rapporto con il proprio spazio, la propria storia, non sentirli più tuoi.
E non sono affatto sicuro che il loro posto lo abbiano preso le strade di Dublino. Certo, il Dunnes Stores, il Flannery’s, lo Ha’ Penny Bridge mi passano davanti agli occhi tutte le settimane, ma posso dire che siano parte di me? Forse me ne accorgerò solo quando lascerò Dublino.
Intanto inizio a pensare di aver tagliato le mie radici in Italia senza averle messe a Dublino.
Non sono Aer Lingus o Ryanair a ricordarci che una buona fetta di irlandiani è nomade. È invece la sensazione di spaesamento, il perdere punti di riferimento che poi, quando ritrovi, non ti servono più a niente, come se fossi in mezzo all’oceano e ti gettassero un salvagente sgonfio.
Se dai luoghi si passa alle persone la storia non cambia: gli stessi volti che hai visto per anni sono ora persone diverse, con amici diversi, con vite diverse: il mondo ha camminato per conto suo mentre tu eri altrove. Un po’ come quell’astronauta che partì per lo spazio dall’Urss, e quando tornò era già Russia.
Pensate a un automobilista di 10 anni fa portato sulle strade italiane di oggi, con le sue infinite rotonde: la testa girerebbe per molti motivi, non solo per le curve.
Forse l’Italia non è più il mio posto, ma nemmeno Dublino lo è. Con i suoi rapporti umani precari, con compagni di avventura che non si sa quanto rimarranno, e nemmeno tu lo sai. Con gli irlandesi che conosci che si contano sempre su una mano. Col mio inglese paradossale, che quando accendo la televisione non capisco una mazza, e quando giorni fa parlavo con un madrelingua mi ha detto di andare piano che per lui ero troppo svelto a parlare.
Senza certezze nello stivale e nemmeno nell’isola, tutto permanentemente precario, tutto precariamente permanente.
È la globalizzazione baby.