Da Patria Indipendente ( ANPI )
PATRIA INDIPENDENTE 19 SETTEMBRE 2004 18
Poiché la stampa nazionale, salvo
talune eccezioni, scrivendo a proposito
delle foibe si ostina a non
tener conto delle vicende storiche accadute
nonché delle brutali violenze
perpetrate fin dalla conclusione del
primo conflitto mondiale nei confronti
delle popolazioni slovene e croate venute
a far parte del Regno d’Italia, è
opportuno ritornare sull’argomento
per farlo conoscere agli italiani poco
attenti ed in particolare ai demotivati
giovani d’oggi. Ciò non significa giustificare
alcunché, ma certamente non
è possibile ignorare le responsabilità
del nazionalismo italiano e del fascismo
nei confronti delle popolazioni
slave e delle minoranze in generale.
Gaetano Salvemini, professore universitario,
politico, critico del malcostume
giolittiano, amico di Cesare Battisti,
volontario combattente sul Carso,
deputato al Parlamento e antifascista,
il 14 maggio 1915, dieci giorni prima
dell’ingresso italiano nella Grande
Guerra, così scrisse: «Se prevarranno i
livori ed i rancori locali degli italiani
di Trieste e dell’Istria contro gli slavi,
tristi giorni si prepareranno al nostro
Paese. Se sapremo guardare al problema
dei rapporti italo-slavi da un punto
di vista superiore a quello delle lotte
comunali, locali, personali, la sostituzione
della bandiera italiana a quella
austriaca in Trieste e Pola rappresenterà
in Europa una solida garanzia di
pace e civiltà».
Ma così non fu. La guerra si rivelò lunga
e sanguinosa, e sebbene i soldati
italiani si battessero con valore, la disastrosa
rotta di Caporetto fu imputata
dal Gen. Cadorna ai fanti «vilmente ritiratisi
e arresisi». Le decimazioni e le
fucilazioni dei “vili” furono all’ordine
del giorno. Non si ottennero però
grandi successi, bensì un’ecatombe di
combattenti e di vittime civili. La guerra
ebbe fine quando ancora truppe imperiali
occupavano territori italiani.
Dopo la vittoria, Vittorio Emanuele III
nominava governatore delle terre annesse
– che risultavano essere abitate
da popolazioni slovene e croate in
una percentuale del 58% – il Gen.
Carlo Petitti di Roreto, il quale non
mancò di richiamare quei comandanti
militari a lui sottoposti che avevano
ordinato ai sacerdoti slavi di predicare
in lingua italiana.
Le disposizioni del Governatore militare
non vennero ascoltate, sebbene
fosse stato dato alle stampe e letto
nelle chiese un proclama che recitava:
«Sloveni d’Italia, la grande Nazione
della libertà, venuta a voi, vi lascerà
l’uso della vostra lingua e la nazionalità
delle vostre scuole, assai più che
non abbia concesso a voi l’Austria...».
Tali promesse non furono mantenute;
esplose invece la violenza in tutte le
località dell’Istria, tanto che nell’agosto
del 1920 il deputato Giovanni Cosattini
(nel 1945 Sindaco della Liberazione
della città di Udine) denunciò
alla Camera che «dalle 500 alle 600
persone furono internate senza evidente
motivo. Si vedeva in ogni slavo
un nemico od una spia; da qui la politica
del terrore e della persecuzione ...
Nei villaggi slavi la legge, la libertà, il
diritto non contano nulla. Vi regna
l’arbitrio del Comandante locale, del
Commissario comunale, del brigadiere
dei carabinieri... Lo scioglimento
delle associazioni, il divieto delle riunioni,
la persecuzione dei maestri, le
perquisizioni che arrivano senza alcuna
autorizzazione della magistratura e
senza garanzie legali».
Anche il nazionalista Attilio Tamaro in
un suo articolo pubblicato su La Riscossa
nel 1919 espresse così la sua
dura critica: «L’Italia ha mandato ed
ha permesso che si spingesse qui
un’impressionante quantità di impiegati
corrotti o corruttibili che ammorbano
il mondo degli affari e gli animi
dei cittadini... Ricordiamo, quale ultimo
e triste esempio, che i carabinieri,
altamente benemeriti, hanno preso
l’insopportabile abitudine di percuotere
gli individui che arrestano. Essi seminano
vento e si raccoglierà tempesta
». Furono espulsi e sostituiti i dipendenti
pubblici, i ferrovieri, i marittimi.
Nella città di Pola vennero cacciati
dall’Arsenale e dai Cantieri gli
operai e i tecnici croati e sloveni. Lo
stesso vescovo castrense dell’esercito
mons. Angelo Bortolomasi, che per
ordine superiore aveva sostituito il vescovo
di Trieste e Capodistria, il mons.
sloveno Andreas Karlin, indirizzò una
lettera al Presidente del Consiglio Giolitti,
in cui riferiva: «Ho dovuto fare
constatazioni dolorose... Gruppi di fa-
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scisti, con minacce e a mano armata,
intimarono che non si dovesse più tener
canti popolari o discorsi in lingua
slava... Taccio di scene anche particolarmente
brutali... Le popolazioni sono
irritatissime da queste violenze...
Temo una grave reazione».
L’odio contro gli italiani si diffuse e divenne
generale. Si colpiva a casaccio
e con ferocia, come raccomandava
Mussolini, si esiliavano in Sardegna
maestri e sacerdoti, si bastonava chi
non si toglieva il cappello di fronte ai
fascisti. Molta gente incominciò a rifugiarsi
nei boschi assieme ai parroci
per poter fuggire dalle continue violenze
e dalle spedizioni punitive.
Si giunse pure a modificare i nomi e i
cognomi slavi per adeguarli alla lingua
italiana, vennero proibite le scritte
slave anche sulle pietre tombali e
quelle sulle corone di fiori per i defunti.
Il Popolo di Trieste scriveva il 27
giugno 1927: «I maestri slavi, i preti
slavi, i circoli culturali slavi, sono tali
anacronismi e controsensi in una regione
annessa da nove anni e dove
non esiste una classe intellettuale slava,
da indurre a porre un freno immediato
alla nostra longanimità e tolleranza
».
Dopo l’inserimento nelle scuole di
maestri “regnicoli”, si verificarono anche
fatti riprovevoli, con punizioni
corporali nei confronti degli scolari
che faticavano ad imparare la lingua
italiana. Il fascismo di frontiera continuava
intanto la sua feroce pulizia etnica
dando alle fiamme case del popolo,
librerie, circoli culturali, società
operaie, cooperative, banche e alberghi,
cercando così di annientare la
cultura e la dignità delle genti slave.
L’Austria non aveva avuto tale comportamento
nei confronti dei propri
sudditi slavi.
In 69 località dell’Istria e del Goriziano
si verificarono incidenti con tanto
di scontri a fuoco, motivati dalla legittima
difesa contro le squadracce del
gerarca Francesco Giunta. In quegli
anni, circa sessantamila sloveni e
croati emigrarono nelle due Americhe
e nel Regno di Jugoslavia. Carichi di
rancore contro l’Italia fascista, molti di
questi sarebbero tornati alle loro terre
dopo il crollo del regime mussoliniano
con animo ostile e covando desiderio
di vendetta.
Intanto il tribunale speciale fascista
emetteva continuamente condanne a
morte ed a molti anni di reclusione:
nei migliori dei casi vi era la deportazione
nelle isole dell’Italia meridionale.
La dittatura fascista durava per
21 lunghi anni, fino a quel crollo, avvenuto
nel pieno della tragedia della
seconda guerra mondiale, dalla stessa
dittatura tanto auspicata, in corrispondenza
del quale occorse l’insurrezione
degli sloveni e dei croati delle terre
annesse all’Italia con il trattato di Rapallo.
Concludendo questa breve ricerca sulle
testimonianze relative al fascismo di
frontiera, dalla fine del primo conflitto
mondiale fino al 1930, sarà opportuno
leggere quanto scrisse il gerarca e ministro
dei lavori pubblici Giuseppe
Cobolli Gigli, figlio del maestro sloveno
Nicolaus Kombol. Costui, autore di
opuscoli a carattere politico, sosteneva
nel 1927 la necessità della pulizia
etnica del suo stesso popolo attraverso
la sostituzione degli agricoltori sloveni
con coloni italiani provenienti dalle
province del Regno. Al ministro piaceva
una particolare canzone che allora
accompagnava le azioni violente degli
squadristi, canzone che egli stesso
pubblicò con una propria introduzione:
«La musa istriana ha chiamato
FOIBA il degno posto di sepoltura per
chi, nella provincia, minaccia con audaci
pretese le caratteristiche nazionali
dell’Istria». I croati che quindi insistevano
nel parlare la propria lingua
materna correvano il pericolo di trovarvi
l’ultima dimora, così come in effetti
successe a molti di loro. Il canto
così minacciava: A Pola xè l’Arena/ la
Foiba xè a Pisin/ che buta zo in quel
fondo/ chi gà un zerto morbìn./ E chi
con zerte storie/ fra i piè ne vegnarà/
dìseghe ciaro e tondo:/ «feve più in là,
più in là».
Se ne deduce che l’atroce uso delle
foibe è un brevetto del regime fascista.
Riflessione: le violenze squadriste antiche
e recenti, la snazionalizzazione
degli sloveni e dei croati, le persecuzioni,
i tribunali speciali, le tragedie
delle aggressioni militari ai Paesi
d’Europa, le fucilazioni e le rappresaglie
contro i civili, le deportazioni
nei lager, l’eliminazione dei sospetti,
l’incendio dei paesi, l’Adriatisches
Künstenland, le vendette, le foibe,
l’esodo, hanno un solo responsabile: il
fascismo. ¦
PATRIA INDIPENDENTE 19 SETTEMBRE 2004 18
scisti, con minacce e a mano armata,
intimarono che non si dovesse più tener
canti popolari o discorsi in lingua
slava... Taccio di scene anche particolarmente
brutali... Le popolazioni sono
irritatissime da queste violenze...
Temo una grave reazione».
L’odio contro gli italiani si diffuse e divenne
generale. Si colpiva a casaccio
e con ferocia, come raccomandava
Mussolini, si esiliavano in Sardegna
maestri e sacerdoti, si bastonava chi
non si toglieva il cappello di fronte ai
fascisti. Molta gente incominciò a rifugiarsi
nei boschi assieme ai parroci
per poter fuggire dalle continue violenze
e dalle spedizioni punitive.
Si giunse pure a modificare i nomi e i
cognomi slavi per adeguarli alla lingua
italiana, vennero proibite le scritte
slave anche sulle pietre tombali e
quelle sulle corone di fiori per i defunti.
Il Popolo di Trieste scriveva il 27
giugno 1927: «I maestri slavi, i preti
slavi, i circoli culturali slavi, sono tali
anacronismi e controsensi in una regione
annessa da nove anni e dove
non esiste una classe intellettuale slava,
da indurre a porre un freno immediato
alla nostra longanimità e tolleranza
».
Dopo l’inserimento nelle scuole di
maestri “regnicoli”, si verificarono anche
fatti riprovevoli, con punizioni
corporali nei confronti degli scolari
che faticavano ad imparare la lingua
italiana. Il fascismo di frontiera continuava
intanto la sua feroce pulizia etnica
dando alle fiamme case del popolo,
librerie, circoli culturali, società
operaie, cooperative, banche e alberghi,
cercando così di annientare la
cultura e la dignità delle genti slave.
L’Austria non aveva avuto tale comportamento
nei confronti dei propri
sudditi slavi.
In 69 località dell’Istria e del Goriziano
si verificarono incidenti con tanto
di scontri a fuoco, motivati dalla legittima
difesa contro le squadracce del
gerarca Francesco Giunta. In quegli
anni, circa sessantamila sloveni e
croati emigrarono nelle due Americhe
e nel Regno di Jugoslavia. Carichi di
rancore contro l’Italia fascista, molti di
questi sarebbero tornati alle loro terre
dopo il crollo del regime mussoliniano
con animo ostile e covando desiderio
di vendetta.
Intanto il tribunale speciale fascista
emetteva continuamente condanne a
morte ed a molti anni di reclusione:
nei migliori dei casi vi era la deportazione
nelle isole dell’Italia meridionale.
La dittatura fascista durava per
21 lunghi anni, fino a quel crollo, avvenuto
nel pieno della tragedia della
seconda guerra mondiale, dalla stessa
dittatura tanto auspicata, in corrispondenza
del quale occorse l’insurrezione
degli sloveni e dei croati delle terre
annesse all’Italia con il trattato di Rapallo.
Concludendo questa breve ricerca sulle
testimonianze relative al fascismo di
frontiera, dalla fine del primo conflitto
mondiale fino al 1930, sarà opportuno
leggere quanto scrisse il gerarca e ministro
dei lavori pubblici Giuseppe
Cobolli Gigli, figlio del maestro sloveno
Nicolaus Kombol. Costui, autore di
opuscoli a carattere politico, sosteneva
nel 1927 la necessità della pulizia
etnica del suo stesso popolo attraverso
la sostituzione degli agricoltori sloveni
con coloni italiani provenienti dalle
province del Regno. Al ministro piaceva
una particolare canzone che allora
accompagnava le azioni violente degli
squadristi, canzone che egli stesso
pubblicò con una propria introduzione:
«La musa istriana ha chiamato
FOIBA il degno posto di sepoltura per
chi, nella provincia, minaccia con audaci
pretese le caratteristiche nazionali
dell’Istria». I croati che quindi insistevano
nel parlare la propria lingua
materna correvano il pericolo di trovarvi
l’ultima dimora, così come in effetti
successe a molti di loro. Il canto
così minacciava: A Pola xè l’Arena/ la
Foiba xè a Pisin/ che buta zo in quel
fondo/ chi gà un zerto morbìn./ E chi
con zerte storie/ fra i piè ne vegnarà/
dìseghe ciaro e tondo:/ «feve più in là,
più in là».
Se ne deduce che l’atroce uso delle
foibe è un brevetto del regime fascista.
Riflessione: le violenze squadriste antiche
e recenti, la snazionalizzazione
degli sloveni e dei croati, le persecuzioni,
i tribunali speciali, le tragedie
delle aggressioni militari ai Paesi
d’Europa, le fucilazioni e le rappresaglie
contro i civili, le deportazioni
nei lager, l’eliminazione dei sospetti,
l’incendio dei paesi, l’Adriatisches
Künstenland, le vendette, le foibe,
l’esodo, hanno un solo responsabile: il
fascismo.
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