Lo strano caso della suonatrice di bodhran che non suona

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pedair
00martedì 10 maggio 2005 17:28
molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, avrei ripensato ad un curioso fatto che continuava a ripetersi nel corso di session di musica irlandese a roma.
mi trovavo spesso ad assistere a queste riunioni ludico msicl culturali e la prima persona con cui feci a conoscenza fu una ragazza che - si diceva in giro - cantava e suonava uno strano tamburello di nome bodhran, ma che tutti chiamavano bodran.
le conversazioni che ebbi con questa pulzella furono numerose e varie in argomenti e intensità, aiutate nel fluire intellettuale da bicchieri alti che in molti chiamavano pinte e che contenevano del liquido - lapalissiana manipolazione genetica a scopo di market planetario - che in molti chiamavano guinness ma che nulla aveva a che fare con record o prestazioni di limite.
in più, la pulzella mi ricordava qualcuno... qualcosa. non so perché ma la associavo a una sorta di nenia che la mia mente doveva aver registrato quando ero molto piccolo ma che l'ego cosciente non riusciva a rintracciare.
il curioso fatto che mi apparve chiaro non subito, ma dopo qualche mese di frequentazione, fu che la pulzella in questione di tutto faceva nel corso di tali incontri (teneva pubbliche relazioni, scambiava informazioni di varia natura con me altre persone di natura e provenienza altrettanto varia, organizzava convegni, meeting, grigliate e vacanze studio per imparare il gaelico, tutto insomma tranne quello per cui ella mi era stata decantata, descritta e presentata.
con un po' di attenzione notai che ella, di tanto in tanto, un po' per riposarsi dalle sue mille attività, prendeva il tamburo dallo strano nome e ne percuoteva una piccola parte della superficie con un altrettanto strano bastoncino, probabilmente, pensai io, rimasuglio ben legato di una scatola di shanghai andata quasi tutta perduta.
ogni tanto, facendo imperiosamente zittire gli astanti del pub con minacce verbali e mimate (che spesso facevano riferimento alla circolarità tipica della cultura celtica), si affrettava a cantare una canzone solo voce, intrattenendo gli astanti rimasti, sebbene un minimo intimiditi, e dando la possibilità ai musicisti full time di prendere anch'essi lo strano liquido negli strani bicchieri alti.
davanti al plotone d'esecuzione, mentre il capitano parlottava con il prete che aveva preteso di impartirmi gli ultimi sacramenti, quando costoro menzionarono una cena di pesce che si sarebbero goduti la sera, dopo l'esecuzione, mi venne in mente a chi e a quale nenia avevo associato quella insolita pulzella che suonava il bdhran e cantava senza in realtà suonare o cantare.
rosy71
00martedì 10 maggio 2005 18:39
Fu un giorno lontano (o forse solo ieri) che i miei pensieri correvano verso ciò che era stato e non era già più, verso ciò che sarebbe stato ma ancora non è.
A volte queste intermittenze del cuore proiettate verso il futuro mi stringevano il cuore e riempivano i miei occhi di lacrime non viste, in un momento qui ed ora in cui ormai davvero tutto è virtuale. Passato, presente, futuro.
A volte mi baluginava davanti ciò che sarebbe potuto essere, e ciò che avrei voluto che fosse. Difficilmente corrispondevano.
A volte il cerone del mio viso era un buon prodotto waterproof, a volte ero io che superavo me stessa nell’arte del dissimulare.
Fu un giorno lontano (o forse solo ieri) che li incontrai, nella confusione di un giorno qualunque. O magari non lo era.
Il rumore del non detto che supera la musica. Un canto per sola voce che diventa non-canto. Insomma il cerone che non si scioglie e meno male, penso io.
Il ricordo di me e delle aspettative disattese la mia più grande paura.
Qualcuno avrebbe citato il sublime uscendosene con un “molto rumore per nulla”.
Decisamente più consono a me.
admin/moris
00martedì 10 maggio 2005 21:20
Mi ricordo che un giorno, era una bel pomeriggio primaverile romano, camminando per le strade dell'Urbe la mia attenzione venne catturata da due voci provenienti da una panchina poco distante.

Un giovane con il viso parzialmente coperto dalla barba curata e una ragazza dalla chioma rossa stavano seduti e chiacchieravano amabilmente. La fanciulla aveva uno strano contenitore rotondo (una padella rudimentale ?) e ogni tanto, con le dita, produceva degli strani rumori che accompagnavano la sua voce melodiosa e i carmina declamati a gran voce dalla persona che era con lei.

Poi i due estrassero da una tasca strane spezie che vennerò presto arrotolate dentro una sottile cartina.

Quando finalmente i due riuscirono nell'opera, accesero questa sigaretta dalla forma insolita e un profumo dolciastro e inebriante raggiunse le mie nari e quindi l'aere.

"Ganzoooooo" pronunciò la cantante, dopo alcune boccate.
"Si, ma mò passa... eddajeee" rispose il suo dirimpettaio, con fare impaziente, "sbrigate, che dopo 'nnamo in un internette cafè a scrivvere sur forum dArtrairlanda".



lough
00martedì 10 maggio 2005 23:01
OT ma non troppo...

L‘uomo delle evocazioni girava su una vecchia bicicletta rossa con le gomme larghe e senza cambio.
Nel cesto fis­sato sul manubrio della bici c’era un cagnolino bastardo tipo terrier. Dietro il sellino era legata una specie di cartella malcon­cia color marrone, che nascondeva agli occhi dei curiosi ogni suo possedimento terreno.
Non possedeva molto, ma non gli serviva quasi nulla. Dopotutto,
lui era l’uomo delle evocazioni e ciò che non aveva, lo poteva evocare.

Era più grosso che magro, con una lunga barba grigiastra e un alone di capelli ricci e anch’essi grigi, che spuntavano da sotto un alto cappello nero, come edera che spunta da sotto una gronda.
Infilati nella banda del cappello c’erano un mazzettino di fiori secchi e tre piume: una bianca, di cigno; una nera, di corvo; e t’altra bruna, di civetta.
La giacca che indossava era di un azzurro incredibilmente brillante, come il colore del cielo in una mattinata estiva perfetta­mente tersa.
Sotto, portava una maglietta verde come un prato ap­pena tosato. Aveva pantaloni di velluto a coste marrone con toppe di cuoio e a quadri, e i suoi stivati erano di un giallo intenso e dora­to, come la pianta del bottone d’oro quando è matura.
La sua età era un enigma, ma doveva avere fra i cinquanta e i set­tant’anni. La maggior parte della gente pensava che fosse un barbone come tanti altri; certo, un po’ più colorato degli altri, e certa­mente più allegro, ma par sempre un derelitto; e di conseguenza si stupivano quando sentivano il profumo di mele chr sembrava se­guirlo ovunque, allo stesso modo in cui si meravigliavano per il suo costante buon umore e per la lucida intelligenza che manifestavano i suoi occhi azzurri e luminosi. Quando sollevava il capo, alzando lunga tesa del cappello, e incontrava lo sguardo di qualcuno, l'impatto di quegli occhi era sempre uno shock improvviso, come un diamante nell’oscurità.

Si chiamava John Windle, il che, se siete fra quelli che danno particolare significato ai nomi, potrebhe significare “favorito da dio" ma normalmente veniva chiamato “cestino”, oppure “il tordo dalle ali rosse”, oppure, “colui che perde vigore ed energia in declino."
Tutti questi soprannomi potevano essere veri: l’uomo, di fatto, conduceva una vita affascinante; la sua mente era come uno scrigno che conteneva in egual quantità esperienza, voci e storia; quando cantava, la sua voce era limpida e potente e, sebbene non fosse molto alto (era circa un metro e sessanta con gli stivali), una volta era stato un uomo molto grande.
—Una volta ero un gigante— amava spiegare —quando il
mondo era ancora giovane. Ma evocare ha il suo prezzo. Ora John è solo un vecchio, abbastanza consunto. Un po' come il mondo— aggiungeva, annuendo con un sospiro, i suoi occhi luminosi carichi di stanca tristezza. —Un po' come il mondo.
Vi erano cose che nemmeno l’uomo delle evocazioni poteva aggiustare.
...

(da "L'uomo delle Evocazioni", di Charles de Lint)
lough
00martedì 10 maggio 2005 23:23
Re:

Scritto da: lough 10/05/2005 23.01
OT ma non troppo...

...

(da "L'uomo delle Evocazioni", di Charles de Lint)




...se non altro perchè anche Charles de Lint suonava il Bodhran, da giovane...
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