consiglio (se ce ne fosse ancora bisogno poi) la lettura di un libro che, almeno per quanto mi riguarda, mi ha fatto comprendere ancora di più i Troubles, "Eureka Street" di McLiam Wilson,
leggete con attenzione questo brano di una mostruosa attualità
"Rosemary Daye fece un pallone con il suo terzo chewing-gum alla nicotina. In tre settimane aveva fumato solo due sigarette, tutte e due con Sean: era giustificata. Era la seconda volta che si vedevano e lei quella sera al pub era nervosissima, accettare una sigaretta l’aveva anche aiutata a creare quell’aria raffinata con cui cercava di affascinarlo. Adesso sapeva che avrebbe potuto benissimo risparmiarsi quello sforzo, Sean era già ammaliato. Lei quella sera aveva il suo abito fantasia e lui aveva cominciato ad ansimare prima ancora che lentamente se lo sfilasse.
A quel pensiero quasi le sembrò di sentire sulla pelle il calore dei deboli raggi del sole. Attraversò Royal Avenue ed entrò nel suo negozio preferito, frequentato da ragazze eleganti e alla moda. Si diede un’occhiata in giro distrattamente. Decise di provare una gonna verde di lino lunga fino al ginocchio, anche se era troppo cara e Rosemary non era neanche sicura che le piacesse. Ripensando a quello che lui le aveva detto dei suoi fianchi (ed era così evidente la sua sincerità) arrossì ancora. Si sistemò la gonna davanti allo specchio che la rifletteva dalla vita in giù e si accorse che sotto l’inguine si vedevano già alcune piegoline. Una settimana prima avrebbe pensato che quella gonna la faceva sembrare una pera, adesso, invece, firmò soddisfatta l’assegno, senza neanche toglierla né pensare tanto al prezzo. Quelle piegoline, ne era certa, avrebbero fatto impazzire Sean.
La commessa le sorrise e Rosemary si domandò se la ragazza avesse intuito i suoi pensieri. La sua felicità quel giorno era contagiosa. Chissà se anche quella ragazza aveva qualcuno che l’adorava come Sean adorava lei. Senza motivo, sperò generosamente di sì. Di fuori il sole era un po’ meno caldo adesso. Rosemary era felice: cominciò persino ad ancheggiare leggermente.
Non riusciva a capire perché prima di quella sera non si fosse accorta della bellezza di Sean. Adesso avrebbe voluto mangiarsi il suo sorriso. Prodigiose vampate di calore la inondavano se solo pensava ai suoi denti, così perfetti, con quel minuscolo spazio davanti, al mento virile, alla pelle scura, alla barba appena un po’ lunga. Si sorrise in una vetrina, Centro di bellezza Mechan’s. Rosemary si guardava spesso in quella vetrina. C’erano poche zone della città di cui lei non conoscesse la mappa delle superfici riflettenti. Organizzava i suoi percorsi in base alle possibilità di trovare qualche posto in cui rimirarsi: vetrine, pareti a specchio, persino i finestrini delle auto parcheggiate. Rosemary si sentiva a disagio se era costretta a camminare per più di due o trecento metri senza potersi specchiare almeno una volta.
Non era vanità, bensì apprensione. I suoi capelli avevano dominato la sua vita da quando aveva tredici anni: intrattabili e ostinati com’erano sembravano avere un unico scopo, quello di renderla infelice. Per anni Rosemary aveva speso centinaia di sterline in trattamenti vari, tagli e acconciature. Da sempre guardava con attenzione i capelli delle altre, studiandone i problemi e le cifre spese dalla parrucchiera. In macchina, se si trovava dietro un’auto con alcune ragazze a bordo, riusciva a calcolare con precisione la spesa tricologica annua dell’intero gruppo. Negli ultimi due anni era riuscita a domarli con l’aiuto di una piastra elettrica e di un misterioso unguento balsamico. C’erano ancora giorni, non di rado purtroppo, in cui le sembrava di avere la testa cotonata come una vecchia bacucca ed erano proprio giornate no, ma in genere andava molto meglio.
Comunque non aveva perso l’abitudine di specchiarsi in ogni vetrina. Si era anche accorta di non essere l’unica: molte altre donne controllavano la propria immagine in ogni superficie riflettente che capitasse loro a tiro, per non parlare poi degli uomini. Persino i più grassi e brutti non perdevano occasione di rimirarsi. Gli uomini più attraenti cedevano talvolta al fascino di tale pratica, ma non senza qualche imbarazzo, i loro colleghi grassi e brutti lo facevano con disinvoltura assoluta. Specchiarsi nelle vetrine non era stato molto gratificante in passato, ma da un po’ di tempo Rosemary stava cominciando a piacersi. Aveva ventisei anni: era anche ora.
Si diede un’occhiata intorno, le sembrò che l’ampia Royal Avenue traboccasse di uomini che avrebbero potuto desiderarla, ma non nel modo mortificante e spiacevole che aveva sperimentato fino ad allora. Le sembrava che Sean le avesse permesso di trovare, o le avesse semplicemente rivelato, un mondo fatto di una gradevole, generosa sensualità. I corpi volevano sfiorare altri corpi, e assaporarne il calore. Che male ci poteva essere in una cosa simile? Rosemary attraversò la strada e sorrise a un uomo che non l’aveva neanche notata, ma la guardò subito, gratificato e sorpreso dall’ampiezza e dal calore di quel sorriso.
Era l’una e un quarto. Aveva solo quindici minuti per tornare al lavoro, alle magre gioie del mondo delle assicurazioni. Per la prima volta in tre anni fu felice di dover tornare al soporifero tepore e alle luci soffuse del suo ufficio. Avrebbe dovuto combattere tutto il pomeriggio con il telefono, ma si sarebbe sfilata le scarpe e avrebbe sentito il calore della moquette sotto i piedi (era il primo giorno che usciva senza calze ed era contenta di essere una delle poche ad essersi azzardata a farlo in una giornata così poco assolata) e pensato a Sean e alla sua dolce pelle ruvida e alle infinite vite che avrebbero potuto vivere insieme.
Si diresse verso Queen’s Arcade e si immerse nell’oscurità della galleria. Quel passaggio che solitamente le sembrava così squallido, angusto e malridotto, le parve più pulito ed elegante. Il suo umore non era ancora alle stelle, ma le mancava davvero poco per toccare il cielo con un dito. Sperava di sentirsi sempre così.
Le sembrava che Sean avesse baciato ogni centimetro del suo corpo. Era stato il quinto. Ti prego, permettimi di essere il quinto, l’aveva supplicata quando lei gli aveva detto di essere andata a letto con quattro uomini prima di lui. Nessuno l’aveva trattata con tanta delicatezza, dimostrandole una tale adorazione. Al ricordo dei suoi silenzi stupefatti e della gioia riconoscente di Sean quasi inciampò, sommersa da nuove vampate di calore.
Non era rimasta a dormire da lui e non aveva sorriso quando lui le aveva detto che l’avrebbe chiamata. Le era sembrata una frase fuori posto dopo una serata così. Ti chiamo. L’unica, fino a quel momento, che Rosemary avesse già sentito da altri. Perciò, mentre tornava a casa, aveva cercato di prendere le distanze e ridimensionare tutto. Gli uomini sono così: avrebbe dovuto provare rabbia, non vergogna. Arrivata a casa, le sembrò di scoppiare dalla felicità quando Orla, la sua compagna di appartamento, le disse risentita che un tale Sean le aveva telefonato, senza preoccuparsi minimamente che fossero le tre e mezzo. Doveva essere ubriaco, aggiunse, ma Rosemary sapeva che non era l’alcol ad averlo inebriato, ma lei. Orla era ritornata a letto immusonita e Rosemary l’aveva richiamato: era sveglissimo, ma parlava con un filo di voce e sembrava davvero sbronzo. Le aveva detto, con la voce che gli tremava, che il letto era troppo grande senza di lei e che ormai gli sarebbe bastato pensare ai suoi fianchi per morire felice. Forse non era una frase particolarmente brillante, ma a lei era bastata ampiamente.
Emerse dall’oscurità di Queen’s Arcade. Passata una lunga nuvola chiara, il sole si ravvivò e lei sentì di nuovo il tepore di quei dolci raggi sul viso accaldato. Sorrise. Poi sorrise di nuovo al pensiero di quel sorriso immotivato. Si slacciò il primo bottone della camicetta. Nonostante gli abiti leggeri, provava una dolce sensazione di calore, una splendida tiepida carezza sulla pelle. Le sembrava che non avrebbe mai più potuto sentire freddo, che quel fuoco tranquillo e fecondo risvegliasse ogni granello di vita dentro di lei.
La luce di Fountain Place la riportò in sé. Aveva passeggiato e osservato le vetrine così a lungo che si era dimenticata di mangiare. Non le era rimasto più molto tempo. Si diresse verso il piccolo snack bar in cui andava sempre, indugiando sulla porta per lasciar passare un bel ragazzo con un vistoso abito verde. Questi, colpito dal rossore di Rosemary, le rivolse un sorriso seducente e le aprì galantemente la porta. Felice, lei ricambiò il sorriso ed entrò, passandogli sotto il braccio. Mentre si voltava a ringraziarlo, la sua esistenza ebbe fine.
Nell’esplosione un espositore di vetro si disintegrò, ma Rosemary fu colpita da pezzi di vetro e schegge metalliche abbastanza grandi da ucciderla all’istante. Un frammento di vetro temperato le mozzò il braccio sinistro e l’ammasso contorto di un vassoio metallico le dilaniò gran parte del cranio e del viso. Uno dei tre grandi blocchi da cui era composto il bordo esterno dell’espositore le si infilò nei fianchi, così sinceramente e appassionatamente desiderati, tranciandoli di netto. Alcuni pesanti barattoli di vetro le sfondarono il petto e lo stomaco, disintegrando i suoi organi interni. Un grosso pezzo di vetro si schiantò contro il suo diaframma e fuoriuscì da un ampio squarcio nella schiena portando con sé gran parte di quanto aveva incontrato nel suo cammino all’interno del corpo.
continua
www.caffeeuropa.it/libri/51libri-capitolo1.html