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5 maggio: ricordando Bobby Sands

Ultimo Aggiornamento: 09/05/2008 14:15
29/05/2005 22:37
 
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articolo del Manifesto
Carcere, ciò che c'è da sapere
«Il silenzio dell'allodola», opera prima di David Ballerini
R. S.

CANNES
C'è anche un cinema italiano «civile», ma non c'e' una tradizione, un filone e nemmeno un prototipo italiano sulle lotte nelle carceri, e nemmeno sulle fughe, sulle rivolte dell'Ucciardone e di Regina Coeli, sul medievale stato di detenzione e sul sadismo concentrazionario imperante. Sarà un veto feudale, come quello che nasconde gli stermini coloniali fascisti e a-fascisti. Si tollera, a volte, il carcere dei «grandi», come Gramsci di Lino Del Fra, ma realizzato in pieno spirito '68. Dunque è stato impressionante vedere tutto quello che avremmo voluto sapere sul carcere come meccanismo istituzionale istigante alla rivolta, al Mercato di Cannes (dopo la vittoria al festival di Viareggio e il forte appoggio critico di Liv Ullman: «è un pugno in faccia») in un film italiano, Il silenzio dell'allodola, opera prima di David Ballerini, star Ivan Franek, prodotto da Bruno Restuccia per la Esperia. Certo il set è l'Inghilterra, il pretesto è Bobby Sand, il poeta dell'Ira che fu ucciso in galera, come i 100 di Attica, dalla vendicativa democrazia occidentale. Franek interpreta però anche un po' come Lancaster in L'uomo di Alatraz o Eastwood in Fuga da Alcatraz il ruolo di chi condusse quella celebre durissima lotta, fatta di torture e umiliazioni pressanti, che daranno idee e dettagli fertili ai sani ragazzi di Abu Ghraib, perdendo la vita ma vincendo la guerra per il riconoscimento dello status di prigioniero politico ai militanti armati e aprendo una breccia etica nelle coscienze del nemico sciovinista.

E il film, pur completato da foto e giornali d'epoca sul quel celebre urlo di insubordinazione collettiva, anche grazie alle ellissi sui dettagli macabri e exploitation, ma è il fantasma di Holger Meins che a un tratto appare, e al lavoro «rituale» degli attori di supporto (un grande, diabolico ed ecologista Bucci, che toglie ogni ovvietà allo stereotipo del direttore sadico), alla fotografia livida come nei lager movies nazisti, ai costumi transnazionali e al commento musicale quasi blasfemo, è come se facesse un'astrazione di tutti i detenuti privati dei diritti, obbligati perciò alle più disperate e coraggiose delle lotte. Quelle di cui nessuno mai potrà parlare dando una bipartizan versione dei fatti che questo servizio pubblico in crisi dovrebbe poter garantire.



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