00 25/01/2005 23:50
Ancora dal Corriere.

(non inserisco il link, perchè allo scoccare della mezzanotte, andrebbe perso)

«Reclutare combattenti per l’Iraq non è reato»

Milano, il giudice assolve dall’accusa di terrorismo un gruppo di islamici. «Inutilizzabili le fonti degli 007»


MILANO - Non è reato reclutare mujaheddin per la guerra in Iraq. La grave accusa di terrorismo internazionale, infatti, si può applicare solo se è provata l’organizzazione di attentati «diretti a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo politico e/o religioso» e cioè «delitti contro l’umanità». Per cui gli integralisti delle cellule di Milano e Cremona, arrestati con clamore nell’aprile 2003, vanno tutti assolti, anche se è vero che hanno «arruolato volontari di matrice islamico-fondamentalista» e li hanno «inviati con documenti contraffatti in strutture di addestramento paramilitare» nel Nord dell’Iraq, gestite da quel movimento «Al Ansar» che fu pure bombardato dalle truppe Usa. Per questi motivi un giudice di Milano, Clementina Forleo, ha ordinato la scarcerazione di due imputati, Drissi Noureddine e Kamel Hamraoui, che dovranno essere riprocessati a Brescia (per competenza), e ne ha condannati altri tre, ma solo per reati minori: 3 anni ai tunisini Maher Bouyahia e Alì Toumi, per ricettazione di passaporti falsi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un anno e 10 mesi al marocchino Mohammed Daki, che procurò un documento contraffatto a un aspirante leader della guerriglia irachena. La sentenza, che ieri mattina ha chiuso il primo processo con rito abbreviato, ha fatto cadere il nuovo reato (270 bis) che fu introdotto dopo l’11 settembre 2001 per poter punire i gruppi che organizzino dall’Italia attentati all’estero: un verdetto che, in pratica, fissa il confine giuridico tra guerriglia (lecita fino a prova contraria) e terrorismo.
«Grazie alla giustizia italiana e grazie a Dio: Allah è grande», esultava Toumi uscendo dal tribunale ammanettato dai carabinieri che si ostinavano a nascondere gli altri quattro (ormai ex) accusati di terrorismo. Visibilmente irritati, i pm Armando Spataro ed Elio Ramondini hanno subito preannunciato appello. Mentre i difensori, increduli, tessevano le lodi di «un giudice che ha dimostrato grande rispetto per la libertà e la legalità» (cosi gli avvocati Antonio Nebuloni, Ilaria Crema e Gabriele Leccisi) e di «una sentenza giusta e coraggiosa, perché riconosce che non è terrorista chi va a combattere in forze irregolari contro un’occupazione militare», come aggiunge Vainer Burani, legale di quel marocchino-tedesco Daki che già nel 2001 era stato interrogato dalla polizia di Amburgo. In quanto «amico» dei dirottatori-kamikaze dell’11 settembre e «padrone di casa» di Ramzi Binalshibh, il pianificatore dell’attacco alle Torri gemelle.
Nelle 12 pagine di motivazioni, che formalmente spiegano solo le due scarcerazioni, il giudice Forleo considera provato «con margini di ragionevole certezza che le due cellule di Milano e Cremona avevano come precipuo scopo il finanziamento e il sostegno di strutture di addestramento paramilitare» nel Nord dell’Iraq. E che organizzavano dall’Italia «sia la raccolta e l’invio di denaro sia l’arruolamento di volontari, tutti stranieri e di sicura matrice islamico-fondamentalista»: il tutto «per aiutare i fratelli» mujaheddin fino al marzo 2003, cioè «in concomitanza dell’attacco Usa all’Iraq».
«L’articolo 18/2 della Convenzione Onu del 1999 sul terrorismo», aggiunge però il giudice, riconosce e legittima anche «gruppi armati e movimenti diversi dalle forze istituzionali dello Stato, nella misura in cui si attengano al diritto internazionale umanitario». Per cui «le attività violente o di guerriglia poste in essere in contesti bellici non possono essere perseguite», a meno che non degenerino in azioni di «terrore indiscriminato verso la popolazione civile». D’altra parte, incriminare «gli atti di guerriglia, per quanto violenti, posti in essere nell’ambito di conflitti bellici e a prescindere dall’obiettivo, porterebbe a un’ingiustificata presa di posizione per una delle forze in campo, essendo per altro notorio che strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte» le parti, in Iraq «come in tutti i conflitti dell’era contemporanea».
In tale quadro di diritto internazionale, secondo il giudice «non può ritenersi provato che le due cellule, pur gravitando in aree contrassegnate da propensioni al terrorismo, avessero obiettivi trascendenti quelli di guerriglia». Questa insufficienza di prove deriva «innanzitutto» dalla «inutilizzabilità patologica delle cosiddette fonti di intelligence»: per accusare gli imputati di aver reclutato 5 kamikaze morti in Iraq, i servizi segreti (Sismi) hanno saputo fornire solo «informative anonime non meglio precisate, prive di qualsivoglia riscontro». E «nessun atto degno di rilievo processuale» ha mai confermato «legami con il noto terrorista Al-Zarkawi».
La polizia, invece, è riuscita a provare la «comune appartenenza ad Al Ansar», che è senza dubbio un’«organizzazione combattente islamica munita di una propria milizia e finanziata anche dall’Europa», ma non ad attribuirle «obiettivi terroristici»: gli scritti del mullah Krekar, che ne è il capo, «profetizzavano» solo una «guerriglia» contro «l’attacco americano in Iraq»; mentre l’unico pentito milanese, Mohammed Tahir, parla di Al Qaeda «per sentito dire» e spiega che «la violenza era oggetto di discussione», ma in una «gamma di posizioni diverse», dichiarandosi «islamico moderato».
Quanto al rischio-attentati in Italia, l’unica intercettazione dell’11 marzo 2003 sulla «grande bomba che sta arrivando», secondo il giudice in realtà si riferiva «evidentemente all’imminente attacco americano all’Iraq».

Paolo Biondani


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