00 26/03/2006 03:18
Parte prima
La prima volta che la vidi non ero in Irlanda che da dieci giorni. Spaesata dalla durezza di Dublino, mossa all’azione dalla necessità, quanto di più diverso di ciò a cui ero abituata. Mi colpì la sua gentilezza, incorniciata da quei riccioli biondi che son diventati la mia ossessione. La pazienza con cui si sedette a conversare con me, che nonostante il mio inglese discreto ancora trovavo proibitivo un accento che cambiava tutte le vocali a cui ero abituata. Prese un foglio di carta e vi scrisse sopra il suo nome, e fu la prima parola in gaelico su cui posai gli occhi.

Pensai al suo nome e mi sembrava dolce.

La seconda volta che la vidi mi resi conto di quanto era bella, e dell’aria scostante che talvolta assumeva e la faceva sembrare impossibile. Non so se fu la bellezza o l’impossibilità a farmi innamorare nel modo più irrazionale che potessi concepire, o che avessi mai provato. Temo entrambe, e ora ne sto scontando la seconda, nella solitudine di un sabato sera dublinese di autoreclusione, un anno e mezzo dopo.

La terza volta non arrivava mai. Ogni settimana aspettavo con ansia il giovedì, contando i giorni e le ore, per poterla rivedere nella stessa compagnia che lì si ritrovava, perché ero troppo timida per chiederle un numero di telefono, e la coda di paglia dei miei sentimenti prendeva fuoco così facilmente che pensavo una mossa falsa bastasse a mettere a nudo le mie intenzioni. Di cui mi vergognavo. Perché improvvise, inaspettate.

La terza volta rimase poco tempo e si dileguò sulla strada verso il pub, perché doveva vedere la ‘migliore delle amiche’ che partiva il giorno dopo. Cercai di mascherare la delusione, ma sono una pessima attrice, e il resto della serata non ebbe più senso per me.

La quarta volta arrivò al pub quando tutti se ne stavano andando, e mi pregò di rimanere. Si scatenò ballando e bevendo, ed io altrettanto, e mi disse “Sai io non sono sempre così”, ma era l’unico giorno alla settimana in cui si poteva sfogare, perché i suoi amici, i suoi preziosissimi amici, non sapevano del suo segreto. Che io faticavo a considerare un segreto, ma volevo capirla.
Mi disse “non sono sempre così” e io le credetti.
Per il numero di birre che mi aveva offerto la mattina dopo stetti male, per la prima volta in vita mia. Non avrei mai rifiutato nulla offerto da lei. O quasi. Da lì avrei dovuto capire che anziché avere un’influenza positiva su di lei, come speravo, era lei ad avere una signora influenza su di me. Distruttiva, neanche a dirlo.
Ed il colmo era che io ne ero quasi felice, perché mi faceva sentire speciale ai suoi occhi.
Cercai di rifiutare la stupidità di tutto questo, con rabbia. Inutilmente.

Sparì. Le settimane passavano. Sapevo così poco di lei. Il nome di battesimo (niente cognome), in cosa si era laureata (in quale università?), che studiava per un dottorato (in cosa?), che aveva un lavoro inerente alla sua laurea (dove?).
Non sapevo come contattarla, se non col pensiero che continuamente tornava a lei, nonostante “ogni determinazione e voto contrario”.
Mi misi al computer dell’ufficio e passai un’oretta a testare la capacità di ricerca di Google (per cui mesi dopo avrei lavorato). Un’ora di ricerche ancora inesperte, e l’emozione mi sommerse. Avevo trovato un cognome. A questo nome e cognome erano legati siti ed una foto. La sua. Ed un’indirizzo email, del Trinity College.

Mi sentii una guardona.

Come ovviare a questa vergogna? Decisi di farle sapere ciò che sapevo, nel modo più casual possibile. Un’email, con un finto soggetto di lavoro che solo una persona delirante come me poteva scrivere, che le chiedeva se aveva mai provato a cercare il proprio nome su Google.

La sera stessa, ad una festa in ufficio, un edificio in tre piani nel cuore di Temple Bar, scavalcai la gente che beveva e mangiava, schivai il mio capo che si faceva una canna, e tra la musica e l’insistente vociare che improvvisamente scemò lontano controllai ancora la posta elettronica: con un tuffo al cuore vidi che mi aveva risposto.
C’era il motivo per cui non l’avevo più vista agli incontri, la descrizione dell’incidente che aveva avuto, ed il suo numero di telefono. Che non avevo nemmeno chiesto.

Le messaggiai il mio numero. La sera dopo, in maniera estremamente casual, mi propose di uscire. Assieme agli altri del gruppo. Ma il giorno della settimana era quello sbagliato, e gli altri non c’erano.

Eravamo noi due sole.

[Modificato da sarabiga 26/03/2006 3.33]

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Tra il dire e il fare c'è di mezzo molto più che un maiale