UMBERTO ECO: A PASSO DI GAMBERO

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INES TABUSSO
00domenica 5 febbraio 2006 22:38

CORRIERE DELLA SERA
5 febbraio 2006
Nel nuovo libro, «A passo di gambero», lo scrittore giudica l'era Berlusconi
Eco: perché l’intellettuale deve essere un po’ antipatico
«Il critico di costume non è cantore del principe. Un Paese in declino, all’estero ci compiangono»

«Era poco prima di Natale, stavo mettendo assieme una serie di miei scritti inediti di filosofia e storia della semiotica che avevo promesso all’editore, quando, sollecitato da alcuni articoli apparsi anche sul Corriere della Sera, mi sono detto che forse era più urgente raccogliere i miei articoli di questi ultimi anni, diciamo sull’era Bush- Berlusconi».
Seduto sul divano della casa milanese affacciata sui giardini ancora imbiancati del Castello Sforzesco, Umberto Eco ci parla del suo nuovo volume, A passo di gambero—Guerre calde e populismo mediatico, che uscirà mercoledì 8 da Bompiani, in cui ha raccolto articoli, saggi inediti per l’Italia, ma anche interventi a convegni scritti tra il 2000 e il 2005. Sei anni di politica e di costume secondo uno dei nostri maggiori scrittori e saggisti, senz’altro il più conosciuto all’estero, il cui nome compare sempre quando qualche rivista internazionale stila la lista degli intellettuali più influenti del mondo: l’anno scorso l’autore del Nome della rosa e del Trattato di semiotica era tra i primi venti nella classifica compilata dall’americana Foreign policy. Naturale che il suo nome venga immediatamente citato nelle discussioni sul rapporto tra intellettuali di sinistra e politica. Del resto lui stesso ha dedicato all’argomento alcune pagine di questo volume.
Eco nella sua casa milanese (Grazia Neri)
«L’intellettuale — scrive Eco — svolge la propria funzione critica e non propagandistica solo (o anzitutto) quando sa parlare contro la propria parte».
Eppure, di recente, Franco Cordelli, Erri De Luca, Luca Ricolfi, Gianni Vattimo hanno accusato Eco di attaccare sempre l’avversario politico, Berlusconi, dimenticando di fare rilievi alla propria parte politica. «Molte volte — risponde il professore—sono stato accusato di tacere anche quando non era vero. Uno scrittore italiano, non tra i minori, una volta arrivò a sostenere che io non mi ero pronunciato contro la persecuzione di SalmanRushdie perché questi aveva recensito negativamente un mio libro. Al giornalista che mi chiedeva la mia reazione a queste accuse ho citato tutti i miei articoli in materia, gli appelli firmati, persino una pagina intera del NewYork Times comperata con un gruppo di scrittori di tutto il mondo. Il giornalista ha riferito la mia risposta all’accusatore e quello ha detto: "non sono obbligato a leggere tutte le cose che scrive Eco". Quest’episodio divertente dimostra quanto sia facile costruire delle leggende. Del resto, per una modica cifra posso tirar fuori dal computer tutti i miei interventi critici verso la sinistra, a cominciare da un articolo su Quindici, la rivista che dialogava con la contestazione, in cui attaccavo il vezzo delle "occupazioni" delle varie istituzioni culturali. Quanto alla ripetitività delle critiche a Berlusconi, la domanda da porsi è se sia ripetitiva la critica politica o il suo comportamento ossessivo. Guardi, l’Italia nei cinque anni appena trascorsi si è messa sulla strada del declino. Se andiamo avanti così diventiamo definitivamente un Paese da Terzo Mondo. Figurarsi se di fronte a un tale rischio mi metto a parlare della barca di D’Alema, che pure mi permetterebbe di fare delle bellissime battute».
A passo di gambero: l’immagine sintetizza una fase in cui sembra che la storia stia andando al rovescio. Dalla Guerra Fredda si è tornati alla guerra guerreggiata, negli stadi, e non solo, è tornato il saluto romano, assistiamo a preoccupanti rigurgiti di antisemitismo, la geografia politica europea sembra seguire gli atlanti disegnati prima del 1914, si ripresenta «una nuova stagione delle Crociate con lo scontro tra Islam e cristianità», la storia ha riesumato addirittura «i memorabili attacchi degli "astuti afghani" al Kyber pass». In questo ritorno al passato una delle poche novità la offre l’Italia, con l’instaurazione di «un regime di populismomediatico », anche se Eco spiega che usa il termine regime nell’accezione neutra di «forma di governo».
Proprio alle «cronache di un regime» è dedicata la parte centrale del libro, compreso l’«appello a un referendum morale » per le elezioni politiche del 2001 in cui il professore notava che a destra si poteva distinguere tra un «elettorato motivato» e un «elettorato affascinato», categoria in cui veniva fatto rientrare chi «ha fondato il proprio sistema di valori sull’educazione strisciante impartita per decenni dalle televisioni... chi legge pochi quotidiani e libri», che non sa cosa sia l’Economist e salendo in treno compera «indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina». Tanto è bastato al sociologo di sinistra Luca Ricolfi, autore del saggio Perché siamo antipatici?, per accusare Umberto Eco di essere il classico intellettuale che soffre del complesso di appartenere alla parte migliore della società, e di trattare dall’alto in basso chi non la pensa come lui. Lo scrittore ha risposto con una frase nella quarta di copertina in cui rivendica il diritto alla critica all’insegna di un’«antipatia positiva».
«Mi sembra ingenuo — argomenta Eco— non capire le strategie della retorica, nel senso nobile del termine. Non avevo scritto quell’articolo per convincere l’elettorato del Polo a non votare più per Berlusconi, ma per comunicare il senso dell’urgenza all’elettorato demotivato e indeciso della sinistra. Non mi rivolgevo al signor Bianchi dandogli dello stupido, sarei stato un dissennato se l’avessi fatto, masemplicemente dicevo al signor Rossi: guarda che se non vai a votare c’è il rischio che vincano quelli come Bianchi. Certo, il tono appariva molto severo nei confronti del povero signor Bianchi, ma bisogna essere consapevoli che chi fa critica di costume non si comporta come il cantore del principe, Virgilio, ma come il fustigatore Orazio, non si fa critica di costume se non si parla male dei costumi vigenti, altrimenti si scriverebbero, che so, dei sonetti per le nozze della principessa Brambilla. Se invece Ricolfi ha inteso smuovere quella parte della sinistra con la puzza sotto il naso, beh, mi sembra che le sedute di autocoscienza di questi giorni abbiano dimostrato che la sinistra vuole superare definitivamente "il complesso dei migliori"».
Il nuovo libro di Umberto Eco non parla soltanto di Berlusconi e Bush, di Bin Laden e del cardinale Ruini, ma degli interrogativi che si pone un cittadino italiano agli inizi del XXI secolo, compreso il tema della morte, del gioco, della competizione tra Paesi nel mondo globale, della spettacolarizzazione, o meglio, della carnevalizzazione della vita. Eppure la politica è il filo che unisce queste pagine insiemedivertenti e drammatiche, anche quando descrivono il ruolo dei comici o le conversazioni sull’Italia con gli amici stranieri. «In tutti i Paesi civili — continua Eco — i comici rappresentano un pungolo, non però maggiore di quello dei direttori di giornali o dei politici. È chiaro che c’è qualcosa che non va nel nostro Paese se i comici assumono il ruolo centrale di opposizione. E non dico che sbagliano i comici, ma c’è qualcosa che non va negli altri. Forse, quando ministro è uno come Calderoli è evidente che all’opposizione non possono esserci che dei comici». Da caustico il tono diventa un po’ amareggiato quando il discorso si sposta sull’immagine dell’Italia all’estero: «Mi prende un senso di profonda umiliazione vedendomi fatto segno di tante manifestazioni di affettuoso cordoglio».
Deciso critico del «populismo mediatico », sistema in cui il leader scavalcando il parlamento si rivolge in televisione direttamente al popolo, o meglio, a «una finzione di popolo», l’esperto di comunicazioni di massa Umberto Eco non sa dire se le ultime continue apparizioni in video gioveranno a Berlusconi: «Non scommetterei un decimo del mio stipendio. Sarei disposto a pronunciarmi soltanto dopo aver fatto seri sondaggi. La tecnica mi pare comunque sempre la stessa: quella della provocazione continua che mette nell’angolo l’avversario: questi sbaglia sia se reagisce sia se sta zitto. Bisogna stare attenti tuttavia non soltanto all’eccesso di parole,maanche all’eccesso di silenzi. Domenica scorsa è avvenuto a Milano un fatto molto importante: una grande partecipazione alle primarie della sinistra per la candidatura a sindaco di Milano, che sono state vinte da Bruno Ferrante. Il giorno dopo la notizia era ovviamente sulla prima pagina del Corriere, di Repubblica e di altri giornali, ma sui telegiornali che ho visto la notizia non c’era o era data con scarso rilievo. Detto questo, voglio ricordare un principio base della scienza delle comunicazioni di massa: i mezzi di massa non creano opinioni, semplicemente rafforzano quelle esistenti. Se così fosse, se l’elettorato, per diverse ragioni, non ultime quelle economiche, ha deciso di abbandonare Berlusconi, l’uso della televisione non servirà a niente».
Se Berlusconi va troppo in video, c’è chi pensa anche a sinistra che Prodi stia adottando una strategia di comunicazione eccessivamente discreta. «È troppo rozza — risponde Eco — la contrapposizione tra un Silvio Berlusconi gran comunicatore e un Romano Prodi che non sa parlare in pubblico. Ricordo alcuni momenti nella campagna del 1996 in cui Prodi mise al tappeto sul piano verbale l’avversario. Certo, ho notato che negli ultimi mesi, sicuramente per consiglio dei suoi, il leader dell’Ulivo non ride quasi mai. Può essere una buona strategia imporre l’immagine del politico pensoso che non racconta continuamente barzellette, come invece fa l’altro. Una linea che può incoraggiare l’idea di un Prodi poco televisivo».
In queste settimane preelettorali qualcuno ha parlato anche di una candidatura di Eco. Se gli venisse offerta, quale ruolo preferirebbe avere? «Perché dovrebbero offrirmi una candidatura? Il fatto che uno sappia scrivere un libro non significa che sappia dirigere un ministero. Vanto amplissime incompetenze in tutti i problemi gestionali. Non vedo perché dovrei danneggiare il mio Paese. E poi, l’intellettuale non è un grillo parlante che deve pronunciarsi su tutto, anzi spesso ha l’obbligo di tacere, soprattutto delle cose che non sa».
Dino Messina
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