Ritorni a casa [racconto]

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jay.ren
00venerdì 15 dicembre 2006 22:04
Altri Racconti: Ritorni a Casa


1.
La stanza nella luce tenue del crepuscolo. Si intravedeva un quadro, una di quelle riproduzioni un po' economiche che si trovano nei supermercati insieme alle nuove collane di poesia e letteratura consacrata tipo Kerouac, Gibrain e Stephen King. L'urlo di Munch. Un classico. Si accese un'altra sigaretta e pensò che era inutile aspettare. Ancora. Ancora non riusciva a rendersi conto che le cose stavano cambiando, anzi, erano già cambiate. Guardò verso la finestra cercando i luoghi, ormai della sua memoria più che della realtà che lo circondava, senza riuscire a riconoscere quasi più niente. Non un albero, non una siepe, non uno steccato, non il viottolo che portava all'entrata principale. Niente. La stanza stava piombando lentamente nell'oscurità tipica delle sere di ottobre, che sai benissimo che potrà solo peggiorare, diventare più buio, più freddo; soprattutto buio. Fade in Black. Ora il rosso residuo della punta della sigaretta risaltava ancora di più. Era come un punto di riferimento per l'occhio che si perdeva in una ricerca non ben definita. Come un punto rosso in un insieme nero. Paul Klee a Londra. Molti anni prima. Tate Gallery. Un giro nelle stanze di William Blake. Lasciate ogni speranza o voi ch'entrate. Aveva lasciato quello che era sembrato il paradiso e di speranze di tornarvi ne aveva poche. Si girava e rigirava nei pensieri senza riuscire ad intravedere niente. Niente. Era come se tutti i sogni di quella terra fossero svaniti nel nulla, lentamente, come il sole in un tramonto rapido di metà ottobre, che tutti si rintanano in casa aspettando l'inverno. Quale ulteriore inverno gli si sarebbe prospettato davanti agli occhi e quale ennesimo volto avrebbe preso quel suo esilio strano e apparentemente irreversibile?
Sarebbe stato il bancone fumoso e familiare del Druid's Den o dell'O'Connors, con i suoi amici Aoife, Nora e Leo a spillargli una Guinness nel momento esatto che lo vedevano entrare, com'era stato anni fa? Un sentimento di tempo intatto e uguale a se stesso. Sarebbe stato lo zapping frenetico sui canali satellitari alla ricerca di un idioma o di un accento familiari? Father Ted, coi sottotitoli da non guardare per non ricordare di essere altrove.
O anche il consueto rituale preparatorio per consacrare le feste, con tanto di trifoglio, maglia verde e canzoni a squarciagola?
I rumori della periferia che si ripopolava svogliatamente dopo la chiusura degli uffici erano ovattati dietro ad un vetro e delle serrande che decise di abbassare. Ecco. Il buio era veramente completo, ora. Era già ora di andare?
Roma traspirava tiepidume, residuo di un'estate indiana. La sigaretta si spense, dimenticata su un lato del posacenere della Silk Cut. Era ora di andare. Si mise il giubbotto e chiuse la porta con svariate mandate. Erano più di otto mesi.
Era ora di andare.
Il buio, ora, era veramente buio.

2.
«E così tu diresti di partire subito?» Claudio era preoccupato. Era mezzanotte e mezza e, come suol dirsi, un altro Natale si era tolto dai coglioni. Eravamo tutti al pub da Giac che festeggiavamo con chi vuoi alzando pinte di birra e risparmiandosi, dopo mercante in fiera e tombola, anche i canti della tradizione idiota tipo tu scendi dalle stelle o re del ciel. E poi Stefano era fatto così: quando gli prendeva la frega di partire, non si calmava fino a che non vedeva un casello d'autostrada scomparire dallo specchietto retrovisore.
«Allora?» Si faceva incalzante il nostro.
«Ma proprio adesso, voglio dire ... non ti sembra un po' tardino?» Claudio tentava la sua proverbiale diplomazia per mediare una situazione lapalissianamente oramai, dal suo punto di vista, disperata. Se non altro per il fatto che il mezzo meccanico che avrebbe dovuto riportarci a "casa" apparteneva indiscutibilmente al fibrillante Stefano. Non mi dispiaceva affatto partire subito, a quell'ora. Prima avremmo cominciato a ritornare e meglio era. Tornare a "casa" dopo tutto quel tempo. Continuavo a chiedermi cosa avrei trovato di cambiato, quali negozi o librerie o pub non sarebbero più state lì ad aspettarmi, quali strade. Mancavo da quasi nove mesi ma mi sembrava un tempo infinito. Tutti gli altri parlavano a voce alta progettando le giocate a carte dei giorni successivi. Giac guardava noi tre ritornanti a mo' di decoupage veloce e con un discreto pizzico di invidia. Lui avrebbe dovuto aspettare ancora un po' di tempo per ritornare; ma sarebbe tornato. Gloria sedeva in un angolo con il suo nuovo, ennesimo, ragazzo e faceva finta di non farci caso. Valentina sorrideva, la testa appoggiata alla spalla di Giulia, mi fissava con un sorriso scemo e malinconico (già, la malinconia corre spesso il rischio di risultare scema); sembrava che mi augurassero quel "possa la strada innalzarsi con te al tuo cammino"; e loro avrebbero ben presto seguito.
Stefano cominciava a giocherellare con le chiavi della macchina. Gran brutto segno. Scolò il bicchiere di succo d'arancia e si alzò rumorosamente, facendo enfatizzare lo strusciare della sedia sul pavimento. Anche i R.E.M. si fermarono per un istante su Everybody Hurts e tennero, come tutti – ma più che altro Claudio – il fiato sospeso.
«Va beh ... Io andrei». Il condizionale un eufemismo. Uscì dal pub salutando tutti come se avesse dovuto semplicemente andare a casa e rivedere il branco la sera dopo. Tutti si guardarono tra il perplesso e il divertito. Claudio era serio. «Beh, se proprio dobbiamo ...». Baciai e abbracciai tutti, presi giubbotto e cappello e slam out. Pioggia. Si cominciava bene. Claudio seguì.
«Allora ... si va». Perplesso e rassegnato. Tutto sommato contento.
«E se non si va non si vede». Battuta tratta da non ricordo quale film. Citare sempre e comunque. Home. Cominciavamo a contare alla rovescia. Chilometri, ore, soldi. Sarebbero tornati a casa. Al diavolo le virgolette. Al diavolo tutto il resto o quasi. Saremmo andati, e in quel caso importava anche dove, importava e come!!

3.
Giulia guardò Paolo e abbozzò un sorriso. Gli porse una sigaretta. Silenzio assoluto. Il cortiletto del backyard non risuonava più delle pallonate dei bambini del parco. Il rumore metallico dello zippo di Paolo staccò nettamente nell'atonia. Un sussurro.
«Tha'»
«It's OK»
Quando si chiude un periodo ti passano davanti tutti i possibili flash che lo hanno caratterizzato, come nei trailer, distorcendo un minimo la portata e le dimensioni di ciò che il periodo è stato. Ma mantenendo un'idea generale. E poi Paolo e Giulia quella stagione meravigliosa l'avevano vissuta. Poco importava a quel punto di revisionismi o di altri registi che avrebbero tradotto quelle sensazioni. L'estate era finita. E con essa la primavera e l'inverno, freddi e celtici, che l'avevano preparata. Patrick e Barry se n'erano andati tre giorni prima, overcaricando il pulmino del padre di Patrick con la bandiera tricolore accanto a una targa ostile e minacciosa. Ancora. Avevano preso la via per Belfast facendosi spazio tra le valigie per girarsi e continuare, seppure per pochissimi secondi, a cazzarare. Paolo pensò che non li avrebbe rivisti, o che li avrebbe rivisti ma che sarebbe passato, quella volta, parecchio tempo. Ora era totalmente buio e il landlord aveva chiuso una volta per sempre i riscaldamenti. Giulia spense la sigaretta, chinò il capo sulla spalla di Paolo e cinse le braccia sul suo collo - si strinsero. We few, we happy few, we bands of brothers... Shakespeare. Henry the Fifth. Paolo prese il viso di Giulia tra le mani. Non riuscivano a vedersi ma non ce n'era proprio bisogno.
«A pint?»
«Positive»
Una pinta di Guinness prima della battaglia di Agincourt. Era come se fossero sicuri della sconfitta quando il futuro era quanto di più imprevedibile si sarebbe potuto immaginare. Tutto. Tutto sarebbe potuto succedere. Si erano guardati indietro abbastanza; inoltre, era del tutto buio e anche in questo caso sapevano benissimo cosa c'era rimasto: quei mobili che con estrema lena un anno prima avevano pulito a forza di olio di gomito e voglia di avere un posto dove stare per fermarsi un po', per poterlo chiamare casa. Casa. Casa comunque. Wherever. Paolo si mise il cappello da pescatore di Galway e chiuse la porta facendo scattare la serratura dolcemente, come quando la mattina usciva presto e non voleva svegliare Giulia che dormiva nella front room attaccata all'ingresso. Qualche addio un po' letterario, senz'altro spontaneo, ai vari angoli, specialmente a quelli contro i quali, con una par-condicio sorprendentemente equa Paolo e Giulia tiravano parti del corpo varie, con particolare e sadica predilezione per le ginocchia e i gomiti. Joints. Con decisione Paolo tirò dietro di sé il portone majoris, lasciando cadere le chiavi nella fessura, a giacere laddove erano giaciute tutte quelle parole di provenienza più o meno lontana, più o meno sincere, che facevano tonfare il cuore della casa nella tristezza come nell'euforia più totali. In entrambi i casi il percorso successivo cambiava di poco. C'erano sempre Giulia e Paolo con parole, un bicchiere di Bailey's, un abbraccio, a far passar l'apocundria, o a far restare l'euforia il più possibile.
Paolo accese la macchina senza ben badare a quello che stava facendo, prese le due curve strette che fiancheggiano il muro della ferrovia e si preparò nell'immersione di Drumcondra Road del giovedì sera. Settemmezza. La macchina automaticamente trovò posto su Wicklow Street, a due passi dal loro solito nido-rifugio. Hogans in Georges Street. Una Guinness e una Smithwick. Il tavolino ad angolo per vedere chi passa. Era non voler abbandonare quella quotidianità mitica e aggrapparsi agli appigli più friabili; Omero scrisse veramente le sue opere su molto meno. E gli dei continuavano a determinare una loro importanza, gli dei del giovedì sera, i cigni selvaggi di Hogans tutto trendy e sai io scrivo sai io faccio arte io sono un artista – eccetera. Ronan arrivò con la sua camminata classica da hey man whazzestori, prese la sua Harp e si sedette al tavolino.
«Stiamo un po' e poi andiamo a casa». Il tempo di una pinta … o due. Quell'accento del nord che tanto differiva da quello dei lads di Belfast. Giulia annuì. Un concetto differente di casa. Maynooth. County Kildare. Giulia sorseggiava piano. L'ultimo giovedì nel luogo del mito non era poi un granché. Paolo sorrise ad uno dei suoi angeli preferiti, ma non era in gran vena di andare lì e howaya e whazziorneim e tutto il resto. Seán arrivò sorridendo, si sfregò le mani come al suo solito e fece il gesto del gargle: la mano destra a fingere l'atto dello scaricare parte di una pinta o tutta giù in bocca, e per lo stomaco e su per la testa. Tutti declinarono l'offerta. Non era da loro, non da Paolo e Giulia da Hogans il giovedì sera. Seán si avvio perplesso al bancone. Strano, molto strano. Qualcosa, in quel momento, forse, si era spezzato. Ma Paolo, nonostante ne ebbe la netta percezione, come suo solito, fece finta di niente.

4.
La nebbia non ci avrebbe fermato. Stefano continuava a macinare chilometri come se la strada fosse perfettamente illuminata e in perfette condizioni. L'autostrada che porta a Milano è di una noia allucinante. Una curva, per Dio, il mio regno per una curva! Anche il buon Stefano, detto "bostik" quando si trova con un volante tra le mani e dei pedali sotto i piedi, accennò per un attimo ad uno sbadiglio: brutto segno. Claudio aveva detto: «Oh, ragazzi, io chiudo gli occhi per cinque minuti; se c'è da guidare svegliatemi e io guido». I Red Hot Chilli Peppers urlavano e strepitavano a colpi di basso slappato e Claudio ritmava i ronfi come se fosse un vero rapper newyorkese. Stefano accostò al primo autogrill e, senza dire niente, scese dalla macchina. Si stiracchiò sbadigliando ed io capii. Scesi dalla macchina anch'io e tentai quantomeno di stiracchiarmi, ben sapendo che non ne avrei avuto la possibilità per molto tempo, quantomeno fino ad Aosta dove, a tradizion non si comanda, saremmo scesi per gustare l'ultimo caffé italiano, quello vero. Più umano. Sincero. Rientrai in macchina senza avere il tempo di scambiare due parole con Stefano. Non lo feci per molto tempo, se si eccettuano monosillabi convenzionali coi quali ci si chiede se va tutto occhei e che potrebbero essere capiti da ben poche persone, forse qualche studioso di semiotica e di linguaggi alternativi, molto trend; di quelli che piacciono ai giovani, a noi giovani.
Nel viaggio poi non c'è bisogno di parlare. Generalmente nei viaggi che facevamo io e Stefano (ma anche con altre persone tipo Jack, Gloria, Valentina, Giulia of course, e alcuni altri che non sto qui a nominare perché non sono alla premiazione di un cazzo di premio) non era obbligatorio parlare; il silenzio non provocava né tristezza, né imbarazzo, né dubbi. Il silenzio era solo il rumore delle nostre sensazioni che cercavano di adeguare il movimento interno a quello esterno. In quel modo il viaggio era molto più completo, totale. In quel modo nessuno era costretto a parlare, ad esprimere cose che il silenzio già esprimeva; sapevamo bene tutti cosa l'altro stava facendo e l'ultima o una delle ultime cose che avevamo bisogno di fare era parlare. Il silenzio era il nostro modo per stare in sintonia senza dover essere banali, scontati, scemi. Ora: c'è silenzio e silenzio. Con Claudio e Stefano, che all'altezza di Cremona ronfavano all'unisono e anche con un certo senso del ritmo non poteva classificarsi sotto la definizione "silenzio", primo perché v'era oggettivamente del rumore, secondo perché se di un viaggio interiore si trattava, quello dei due mitici ronfatori era uno inconscio e onirico. Anche troppo. Le luci di Milano si scorgevano in lontananza, mentre la neve, che aveva cominciato a cadere copiosa e rompiocchi, mi faceva illudere di vedere le prime luci di un'alba che avrebbe anche potuto entrare nella nostra storia personale, nel nostro personale mito.
Passaporti per favore. I due dormienti tornarono definitivamente nel mondo della coscienza e delle realtà burocratico-doganali appena in tempo per essere rassicurati dalla mia voce non più impastata dalla stanchezza e dalla maestosa figura gotica e rosata dell'alba del Monte Bianco. Avevamo cominciato a salire. Già da un pezzo, anche, con l'aiuto degli U2 che ci ricordava che l'amore prima o poi cade giù come un muro. I forget that I can't stay... Come se ce ne fosse stato bisogno.
Parigi era un attimo. Una sosta a guardarci con gli occhi pallati e lo sguardo perso. Claudio si era messo a fissare una ragazzina sugli undici/dodici anni, rischiando seriamente un'accusa di pedofilia galoppante da parte del resto della famiglia della bimba, con reazioni espresse in violenza fisica allegate e, suppongo, allargate ai due ebeti che gli stavano accanto e che fissavano il monitor della viabilità sulla Lyon-Paris. «Andiamo» fece, secco e un po' preoccupato uno dei due ebeti, riuscendo a staccare il nostro dal pericoloso incantesimo catalettico in cui era piombato. «Ma non la stavo guardano. Stavo fissando un punto nell'infinito e casualmente lei era tra il mio sguardo e l'iperspazio, era la mia finestra per il cyberspace ...» Il mio sguardo rinchincazzato, associato al secco gesto di dargli le chiavi della macchina gli smorzarono la dissertazione in bocca. Parigi era un attimo. Parigi arrivò nella sera. Parigi se ne andò nella neve dell'autostrada per Le Havre. Parigi era un calderone di tailleurs e sorrisi congelati di zucchero filato: Parigi era una birra in un pub irlandese a Les Halle. James Joyce. Parigi era ragazze tipo Emanuelle Béart che scartavano pacchetti e si avvolgevano in baci e abbracci sui café dei boulevard. Parigi era neve fino al mare. Fino al mare in tempesta che ci avrebbe scaricato a casa. Sulle amate sponde. Ancora. Ancora e ancora.

5.
Decisamente qualcosa stava cambiando. Non abitare più insieme era strano. Era strano dover parlare inglese, necessariamente, onde non vedersi la faccia del compagno o dell'amico sovrastata da un enorme punto interrogativo – diverso dal punto interrogativo dell'hangover post mi son bevuto anche il sedile del taxi che ci ha riportato a casa (ammesso che fosse un taxi). Diverso dalla scelta di parlare inglese per pura coterie, per puro scoatto si direbbe dalle nostre parti. Paolo scese in cucina e preparò uova, bacon, funghi, potato waffle, fagioli Heinz in salsa tomato dolciastra, il tutto preceduto da cornflakes e condito di toast come se piovesse. Già: come se piovesse, perché invece Dublino è notoriamente una delle città più soleggiate del vecchio continente. E poi l'estate era passata; di cosa stava a lamentarsi Paolo? Poteva tornarsene a casa, no??!
Giulia amava la pioggia. Tranne quando doveva andare a lavorare e, le teenager rompicazzo l'avrebbero vista arrivare gocciolante e tremante dal freddo. E con gli occhiali inutilizzabili per la successiva ora. Quello non le piaceva. Affatto. Prof, prof, è tutta bagnata, dalla testa ai piedi! Lo so, grazie, grugniva la nostra dama della pioggia con un sorriso falso e velenoso. Adorava quella sagacia naif delle sue allieve.
Giulia guardò Ronan come per dire fai tu il caffé, vero? Amore! Ronan era un tipo tranquillo; tranquillo e servizievole. Le donne amano i tipi tranquilli e servizievoli. Giulia si gongolava letteralmente in questo nuovo stato anche se sapeva che Paolo non sarebbe stato d'accordo e che prima o poi sarebbe dovuta andare all'ufficio di collocamento a chiedere il doul. Sessanta quid a settimana per trovarsi un lavoro. Dopotutto, regola infame e infallibile, le borse di studio, come i vent'anni, come gli amori estivi, prima o poi finiscono, e danno spazio alla vita reale e bruta. Le ragazze della scuola la avevano salutata con lacrimoni, letterine, letterone we love you e cazzate del genere. E un ciondolo con un trifoglio. Un bello shamrockino da portare ai ricevimenti ufficiali, anche se poi Giulia se lo metteva anche per andare il giovedì sera da Hogans e Paolo la guardava un po' schifata. Giulia pensò che non ci sarebbero stati più giovedì sera da Hogans proprio nel momento in cui la caffettiera sancì l'inizio della giornata col suo fischio sommesso e stridulo. Il sorriso di Ronan con le tazzine in mano alleviò in parte la nostalgia di Paolo, del flat in St. Brigids Road Upper, dei lads di Belfast, di tutte le cose che erano diventate familiari.
Ma certo che avrebbe potuto continuare a vedere Patrick e Barry e i neighbours dai passa a prendere un the qualche volta e qualche sera ce ne andiamo al pub a bere e finiamo sotto al tavolino; non sarebbe stato più lo stesso. La vecchietta del postoffice non gli avrebbe più sorriso nella stessa maniera, i tipi del Queen's non gli avrebbero passato la pinta di Guinness al volo, senza aspettare che la ordinasse. E per Giulia una Smitwicks. Non sarebbe stato lo stesso. Anche se fosse andato là non lo avrebbero riconosciuto più come regular, un frequentatore abituale, uno di loro. Sean si stava già concentrando, seduto sul divano, con cartina e roach. Un differente sancire una giornata differente. Sarebbe dovuto uscire per andare a cercare lavoro oppure sarebbe dovuto tornare a casa. Casa? La geografia e il senso di appartenenza ad una determinata comunità lo stavano confondendo e opprimendo allo stesso tempo. Bisognava fare qualcosa, qualcosa per dove stava andando. Step on a steam train ... Si accucciò davanti al televisore che mandava le news di pranzo e divorò la sua breakfast, the e sigaretta. No thanks. Uno spliff quando il cervello è in via di accensione rischia di spegnertelo per il resto della giornata. Bisognava che uscisse a trovare un fuckin' job. Seán si sbracò sul divano e si mise in sintonia con Paul Weller e il suo nuovo indirizzo su Stanley Road, cantando in falsetto soffocato. Avrebbe dovuto far qualcosa, tutto tranne l'idea di ritornare a casa.

6.
Smisi di vomitare verso le tre di pomeriggio. Stefano aveva smesso di prendermi per il culo con vezzeggi tipo lupo di mare e mister giosefconrad qualche minuto prima: si era addormentato di cotanto sforzo perculeggiativo. Claudio pure dormiva; grossa novità, wha'! Mi alzai dal mio stanco giaciglio e guardai fuori dal minuscolo oblò. Mare. Mare grigio sotto un cielo grigio con chiazze di nuvole bianche, grigie, quasi nere. Uscii per prendere una sana boccata d'aria e mi appoggiai al parapetto e stetti lì per un po': alzai lo sguardo dopo un numero indefinito di minuti e vidi la costa sud est dell'Irlanda che usciva fuori, verde e scintillante, da tutto quel grigio. Pensai subito di essere a casa, al di là di ogni geografia istituzionale e di ogni predica di mio padre sulle mie radici. Ero a casa.

7.
Paolo ripartì per Roma quattro mesi dopo essersi fumato quell'ultima sigaretta nel buio dell'appartamento vuoto a St. Brigids Road Upper; salutò Seán e Nuala fermi e tristi anche se sorridevano sul portone di casa proletaria e northsider di East Wall e si girò a vedere i bambini che giocavano a pallone per Church Road, salutandolo con un sorriso vago, intenti a crossare e segnare roy keane, mcgrath, mcgrath, houghton yes irleland one italy nil!!! Giulia non resistette e si fece trovare all'aereoporto, trattenne le lacrime tanto poi torni, tanto là non ci resisti, non ci rimani più di un po'. E che la strada si innalzi davanti a te. Giulia scappò in un pianto lasciando Paolo solo davanti alla sbarra passport please ok thanks.

8.
Paolo si girava e rigirava nel letto senza riuscire a non sentire il caldo di luglio, che erano ben quattro mesi che mancava da casa. Si rivestì e uscì a prendere una boccata d'aria e cercare un'improbabile birra alle tre del mattino. Tutto chiuso. La via principale del suo quartiere era illuminata di verde bianco e rosso acceso della luce del cocomeraro che cantava una vecchia canzone. Mille lire per una fetta erano un investimento possibile nell'opprimente semivuoto del portafoglio. Taja ch'è rosso!!. Una leggera brezza avvolse Paolo seduto ai piedi di un albero a sbrodolarsi di zuccherino semiliquido e rinfrescante: stava per riperdersi nei suoi pensieri, nel lavoro che non c'era e quando c'era era totalmente dissalariato, quando sentì un accento familiare uscir fuori da una bocca in cima ad un corpicino cinto da un vestitino a fiori estivo. La tipa lo guardò e gli sorrise, prima di prendere la sua fetta di cocomero, aprire il portafogli e pagare. Il vestitino svolazzò di brezza leggera mentre la celtic beauty si rigirò un'ultima volta a guardare i piedi dell'albero e Paolo sbrodolato di acqua zuccherina, senza accorgersi che una banconota da cinque punts le era scivolata fuori dal portafogli, sdraiandosi ai piedi dei piedi dell'albero. Paolo era talmente preso nel vortice della sua epifania notturna che non ebbe la lucidità necessaria per avvertire la beauty, che nel frattempo era tornata in macchina dai suoi amici trendocoatti e stava sparendo nel boulevard. Paolo guardò fisso la suorina inquietante che campeggiava sul fiver, la raccolse e si asciugò la bocca con un tovagliolo. Era ben ora di tornare a casa. E per bene, stavolta.

8.
Il tragitto da Rosslare a Dublino un susseguirsi di casette disseminate ai lati della strada e della campagna, offuscate dalle gocce di pioggia a rincorrersi sul finestrino posteriore. Guardavo quel grigio di cui tutti già cominciavano a lamentarsi, e la mente già ci si perdeva con un senso di familiarità che mi aveva sempre un minimo spaventato. Il grigio era un mare così dolce da naufragarci con la stessa naturalezza e passività con cui da bambino lasciavi che ti vestissero la mattina presto, che ti portassero in luoghi a te sconosciuti, nella funzione come nell'estetica. Cosa ci facevo ancora in Irlanda? Qual'era quel male strano e innocuo che mi spingeva ancora su, ancora a percorrere quelle strade che stavano diventando stranamente consuete e necessarie come i miei luoghi più intimi, come il bar sotto casa, la chiacchierata con il giornalaio o con il commesso dell'alimentari?
Stefano teneva gli occhi fissi sulla strada che ogni tanto si insabissava in boschetti che scivolavano via come le gocce di pioggia sui vetri laterali. Ancora non avevo ripreso il senso di stabilità della terraferma, anche perché non ero sicuro che quella terra fosse poi così ferma. Claudio tentava con scarso successo di schiudere gli occhi al tardo pomeriggio che già sapeva di sera. Si guardò intorno per un attimo, per poi ripiombare in quelle regioni da lui solo frequentate e da noi sempre saggiamente evitate.
Arrivare a Dublino fu come aver vinto una gara di resistenza. Giravamo con lo sguardo di chi stringe in mano una coppa dopo averla alzata al cielo. Campioni del mondo, urlava a ripetizione il televisore in una calda notte di luglio. Era tutto al suo posto, notai con sollievo: il Trinity College, Grafton Street, i miei pub preferiti, i negozietti di libri usati, il fish'n'chips italiano davanti al teatro, tutto esattamente come lo avevo lasciato, nel dolore di un'ennesima partenza, alcuni mesi prima.
Seán ci accolse con un poderoso abbraccio e un ennesimo sorriso. Il flat era piccolo, ma ci sistemammo alla meglio, tra bagagli, six-packs di Carlsberg che apsettavano il loro turno per il frigo minimale e minimo (una scatola di scarpe con uno sportello e lo scomparto per il ghiaccio non l'avevo mai vista prima), e vestiti da lavoro di Seán che attendevano il loro turno mattutino. Vivere in quattro là dentro, sebbene per pochi giorni, era impresa dura, ma oramai agli eroismi eravamo usi: anche in quel caso, eravamo sicuri, non sarebbe stata la limitata cubatura di spazio a toglierci la vita o il gusto di quel viaggio.
Seán si sedette sulla sua poltrona, cominciò il rito dello spliff e, guardandomi e porgendomi l'oggettino finito, pronunciò solenne come Buck Mulligan che appare dalle scale: «Welcome home!».

9.
Un bicchiere di Leffe doppio malto e un po' di relax. La vita divisa in scansioni di pause e immersioni.
Questa è una pausa.
Bruxelles spendente di lucettine natalizie variopinte, tutto l'universo mondo circondato avvolto nel rosso, oro, argento, tutto confezionato con pacchettini luccicanti, sigillati di nastri verdi, rossi, oro …
Questa è una pausa che ora tutti chiamiamo con fare grave ‘vacanza', o ‘ferie', i più tecnici. Vacanza, qualcosa che viene a mancare: molto probabilmente quella sorta di viscido anestetico per la mente e lo spirito che la routine ti spara nelle vene. Dunque, qualsiasi cosa stia accadendo in quello spazio irreale tra la scrivania e il monitor, per il momento, non riguarda me.
E poi ho lasciato un mare di baci cristallizzati, ondate di saluti con le mani a fendere l'aria ghiaccia, e poi ancora take care, happy xmas, enjoy yourself down in Rome, see you soon e ancora abbracci profumati di Guinness, stretti nei cappotti in fila eterna per un taxi davanti al collegio verde, tra tentativi vani di agganciarne uno col cellulare.
Dieci giorni da passare a casa. Zio, mi porti il pokemon versione irlandese che qua nessuno ce l'ha?!! Garibaldi a Teano: non capisco, ma mi adeguo, impotente davanti alla voce speranzosa di chi ogni volta che mi vede è un po' più alto e meno bambino.
Giulia e tutti gli altri adesso staranno impacchettando le loro cose per partire. Natale e capodanno in Donegal, nel cottage sperduto di turno, a farsi rallentare il battiti del cuore, fino a farlo sparire, come tutto il mondo fuori, lasciato lì a schiumare, come le onde incazzate dell'oceano. Incazzate e fiere.
Io non vedo Roma da tre anni. Da quando Stefano con gli occhi rossi mi scaricò all'aeroporto e non disse una parola; montò in macchina e sparì dietro la curva lasciandomi a fissare una marea di bagagli che non sapevo come incastrare. In quel momento, per un attimo, pensai che avrei potuto non rivederlo mai più, che dopo vent'anni di profonda amicizia qualcosa, ancora una volta, era finito per spezzarsi. Ma poi il tempo è più potente e più testardo di ogni calamità, e finisce per riassettare le fondamenta di qualsiasi terremoto.
Lei vorrà sicuramente andare a mettere dei nuovi fiori sulla sua tomba; nuovi per me. Ci va con la stessa frequenza con cui compra il pane fresco la mattina. Non servirà molto a lenire il dolore che bussa puntuale ogni volta che vado a dormire, ma lei ci tiene e in un certo senso mi aspetta per questo. Mi mostrerà il suo posto nella tomba di famiglia, soprassedendo sul mio (cosa che gradisco sempre di più) e quei viaggi al cimitero saranno il nostro personale momento di intimità, dove pensare e dire cose che noi due solo possiamo capire. Per poi tornare e metter su facce nuove che non facciano intuire cosa abbiamo fatto. Affari di famiglia. Sensazioni che affondano dentro, in profondità, ma che sembrano così lontane, ora.
Poi il racconto per il resto della famiglia, con rami annessi e connessi, quello l'ho già preparato da tempo. Lo ripasso mentalmente nei tempi morti, aggiungo o elimino dettagli, episodi nuovi, no, zia Adua, non vivo in America come Pasquale, no, vivo in Irlanda, quell'isoletta vicino all'Inghilterra, no, non hanno la pena di morte là, zia. Sì, zia sono fidanzato, è una ragazza olandese che lavora nel mio stesso ufficio. Traduciamo libri di istruzioni e talvolta vendiamo anche programmi, per far funzionare i computer, no, non è molto complicato, c'è di peggio. D'inverno fa molto freddo e piove molto, ma mi ci sono abituato oramai, figurati, qua mi sembra quasi caldo.
L'importante nella vita è avere un buon canovaccio da srotolare al momento opportuno.
L'aeroporto di Bruxelles non differisce poi molto dal centro città: luci, fiocchetti e babbi natale. Linda mi abbraccia scaricando la valigia e rimonta in macchina per guidare fino a Utrecht e riabbracciare i suoi. Il viaggio silenzioso ci ha uniti quel che basta per passare le feste lontani: un balsamo rigenerante e talvolta necessario.
Una colonnina continua a girare su se stessa, con su immagini rassicuranti e retroilluminate. Leffe, Belle-rue, Stella Artois, Hoegaarten , campi di orzo, una mano che ne stringe una manciata, barili di legno … Un viavai di gente trafelata, sovrastata da bagagli a mano, pacchi, pacchetti e pacchettini.
Sto tornando a casa per le vacanze.
Casa ora è un luogo stampato a inchiostro di timbro su una carta di identità un po' stropicciata. Né io né Linda abbiamo voluto prendere la nazionalità irlandese, per ora. Siamo europei, diciamo ogni volta che il discorso esce fuori, magari con nuovi conoscenti a dinner parties, anche un po' fieri di come il nostro epicentro, quel luogo dove poggiare il cappello, sia uno spettro ancora abbastanza ampio e comodo.
Linda e io ci amiamo, credo, e quando dobbiamo separarci per brevi periodi (viaggi di lavoro, vacanze ossigenanti) nessuno dei due ne fa un dramma. Ci manchiamo in silenzio. Fa parte della maturità? Non è l'amore sconvolgente che sognavamo anni fa? Non saprei forse un po' tutti e due. Forse l'uno si sposa con l'altro. Fatto sta che ognuno dei due passa il periodo con un vuoto accanto, sopravvive più che decentemente, finché quel vuoto non si colma con un nuovo abbraccio.
Ora la mia carta di credito riposa, dopo le fatiche del duty free. Niente più soldi da contare prima di fare acquisti o di mangiare fuori; quello non lo faccio più da molto tempo, milioni di anni, credo. Tutto quello che mi concedo ora è brandire la mia carta di credito, dopo aver accertato la fattibilità dell'acquisto con un rapido e approssimativo calcolo matematico, porgo l'oggettino in plastica, attendo la ricevuta che firmo e sorrido. Ottengo spesso un sorriso gratis. Non è difficile.
Quello che non ho più sono i chilometri da macinare, turni di guida allucinanti per arrivare prima, per non potersi fermare al primo hotel sull'autostrada e concedersi un relax, per sfruttare tutta la vita possibile. Turni di guida on off nei quali addormentarsi cullati dal ritmo delle ruote che vanno, a un certo punto non si sa più bene neanche dove. Non ho più guard rail che lasciano la loro firma sulla fiancata, come a dire anche stavolta il viaggio lo potete continuare. Ci fermammo al successivo autogrill per accertarci di essere ancora vivi, nonostante i nostri occhi fissi sbarrati. La fiancata ci guardava dolorante ma integra. Stefano, che tra l'altro vantava legami di parentela abbastanza stretta col legittimo proprietario del mezzo, non disse nulla ma tese la mano verso di me, il palmo rivolto all'insù, perentorio. Le chiavi! non disse la sua voce ma tutto il resto, compreso un silenzio surreale che durò fino alla frontiera con la Francia.
Non ho più pause agli autogrill per un caffè o un panino. Ora ci sono caffè o pub nei quali sedersi aspettando che qualcuno venga a prendere le ordinazioni, in attesa che l'altoparlante annunci il nome e numero del nostro volo. Insomma, è una vita più facile quella che possiamo permetterci oggi, quella che un individuo medio o normale, in quanto a cultura e classe sociale, potrebbe desiderare. Si escludano dalla definizione grandi ereditieri, geni della finanza e del computer, politici, attori, cantanti, venditori di fumi vari. Nel tempo della pausa questo e poco altro ci è consentito. Poi ci si reimmerge. E allora quel tempo sembra non avere più tempi. Giorno o notte, ritmi forzati o blandi. Noia o divertimento. Tutto perde confini e definizioni. è immersione e basta.
Un messaggio sul cellulare mi conferma che Stefano sarà all'aeroporto ad aspettarmi. Passeremo gran parte del tempo insieme, ad accennare col ricordo ai fantasmi dei tempi e dei viaggi passati, a giocare con i figli degli altri amici e a girare intorno con la mente per trovare una soluzione logistica possibile che ci permetta di abbandonare i rispettivi lavori e dedicare finalmente le nostre vite totalmente all'arte. E al viaggio. Per ora soluzioni accettabili non sono venute fuori, negli interminabili scambi di brevi linee di testo sui messenger on-line dei vari portali internazionali. Chissà. Certo, la soluzione non è facile da elaborare come lo è bere una pinta di Guinness. Io, esule decentemente pagato, lui emigrato in patria decentemente pagato … l'Europa continua ad andarci un po' stretta, anche se è più comoda di qualche anno fa.
Pago la cameriera sorridente con tanto di mitteleuropea mancia e mi avvio verso il mio gate, trascinando buste e pacchetti, tanto per non essere da meno di questo frenetico universo mondo. La fila per l'imbarco scorre lenta e regolare di nordica efficienza: siamo anche in perfetto orario.
Quello che non ho più sono i ritardi cronico-istituzionali, con gli appuntamenti forgiati apposta per me ad un fuso orario differente.
La hostess di terra mi sorride nei suoi poco più che vent'anni, scaraventa dolcemente la carta d'imbarco nella macchinetta che dà un bip di approvazione. Lo slip mi viene porto dalla belga bellezza che, in un italiano sforzato ma corretto mi augura buon viaggio, mi guarda e mi domanda: «Sta tornando a casa, signore?»


Un racconto di pedair
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