Dal corriere...
A 17 anni mi hanno mandato a spaccar pietre»
«Il mio calvario da dissidente
Ormai Castro fa quel che vuole»
Parla Oswaldo Payá, il più autorevole oppositoe al regime «Da quando agli Usa serve Guantánamo la situazione qui è peggiorata»
DAL NOSTRO INVIATO
L’AVANA - La premessa di Oswaldo Payá era stata: «Non posso dirle troppe cose, ogni parola è un pericolo». Ora che bisogna scriverla, l’intervista, e che è già costata l’espulsione a chi l’ha fatta, la prudenza è doppia: non si può far dire al capo storico della dissidenza anticastrista, premio Sakharov 2002 del Parlamento europeo, candidato al Nobel per la pace, tutto quello che ha detto. Il perché l’aveva spiegato lui: «La mia vita in questi tre anni è diventata ancora più dura. Da quando gli americani sono distratti dall’Iraq, e hanno bisogno di Guantánamo, Castro fa quel che vuole. E’ diventato un calvario spirituale, non solo politico. Hanno incarcerato me e la mia famiglia. La sicurezza dello Stato m’è entrata perfino in camera da letto, mentre dormivo con mia moglie. Controllano i miei tre figli, seguono gli amici. Chi ha contatto con me perde il lavoro. Hanno minacciato il prete della mia parrocchia: volevano che raccontasse quello che gli avevo detto in confessione. Sono andati a controllare la mia biblioteca, per cercare titoli compromettenti». Cuba libro: anche leggere, «a meno che non siano le odi a Castro di Gabriel García Márquez», è un pericolo. Payá Sardinas ha 53 anni, vive così da 36.
«Chi fosse Castro, che cosa fosse il castrismo, l’ho imparato scuola. Ma non per le bugie che ci obbligavano a studiare. Mi scappò una battuta fra compagni. Una cosa ingenua che può dire un ragazzo di 17 anni. Mi portarono all’Isla de Pinos, ci rimasi tre anni. A pulire la canna e a spaccare pietre, dieci ore al giorno. Quando mia moglie era incinta, sono venuti i paramilitari di Fidel e ci hanno picchiato in casa. La mia storia è questa. Mi è servita ad avere una fede più forte. E a esigere che oggi gli altri raccontino meglio la loro, di storia». Gli altri, per Payá, sono gli oppositori che hanno organizzato la riunione anti-Castro del 20 maggio. Non gli piacciono: «I nostri leader sono in carcere, loro no. Io ho un progetto, il Varela, che domanda libertà d’espressione, di stampa, di associazione, d’impresa, oltre all’amnistia e a una nuova legge elettorale: questi dissidenti sono contro il progetto, anzi lo calunniano. Molti di loro, in realtà, sono collaborazionisti del regime. Tre sono chiaramente amici della polizia politica, abbiamo le prove. Una specie di opposizione del re, una frode che non può dare fastidio, un insulto a chi fa reale dissidenza». Payá è un cattolico, guida il Movimento cristiano di liberazione e circa 140 gruppi clandestini anti-Fidel. Dice che Cuba è «uno Stato ateo, anzi laico, solo perché è più facile sottomettere un popolo scristianizzato e senza speranza».
E non vuole dilungarsi su Marta Beatriz Roque, l’economista appena scarcerata che è stata l’anima della riunione del 20 maggio: il regime ha messo in croce il proprietario della casa dove s’è fatto l’incontro, Feliz Bonne, e la suocera di Bonne è finita agli arresti domiciliari, ma per Payá «ci sono troppi sospetti intorno a questa gente perché possiamo fidarci». A Cuba, in teoria, 10 mila firme di cittadini bastano a presentare una proposta di legge. Il Progetto Varela di Payá, ignorato da stampa e tv di Stato, ne ha raccolte in pochi giorni il triplo. Quando è arrivato all’Asamblea Nacional per la discussione, Castro ha interrotto i lavori a tempo indeterminato e ha sbattuto in galera 52 collaboratori di Payá: «Nessuno muove un dito, per loro. Sono dissidenti che non esistono. Nel mondo, passa solo la voce dei cubani di Miami e, ora, di questi signori che hanno mobilitato voi giornalisti e deputati europei. Dall’Italia, ho visto che si sono mossi i radicali di Pannella e di Emma Bonino, voleva venire anche la nipote di Mussolini. Ma questi parlamentari dove vivono? Così, fanno solo il gioco di Castro». Fidel è un argomento che divide la politica italiana... «Io penso che molti non sappiano bene che cosa succede qui. Questa non è una dittatura di sinistra. E’ una dittatura e basta. Ogni volta che qualcuno viene qui a stringerle la mano, o a sostenere i suoi finti nemici, è come se calpestasse la testa dei nostri fratelli in prigione».
Francesco Battistini