Marcinelle, il lungo giorno della memoria | di Roberto Ferrucci
Cinquant'anni dopo, tanti ex minatori ieri si sono dati appuntamento: quelli salvati perché destinati a turni diversi, e quelli risparmiati dalla silicosi.
Sulla transenna l'indicazione, a destra, non lascia dubbi: “Gueules noires”, per di là. Le facce nere. Li chiamavano così, da queste parti i minatori, quelli che lavoravano il carbone laggiù, nelle profondità di Le Bois du Cazier. Quelli che abitavano nel Pays Noir, Charleroi. E per di là, ci arrivi dritto davanti, alla miniera. All'entrata, i due tricolori - verde bianco rosso, nero giallo rosso - garriscono al vento. Sarà l'effetto della prospettiva, certo, lo schiacciamento dell'obiettivo della macchina, ma nella fotografia, poco dopo, sembrerà davvero di vedere le due bandiere accarezzare la “guele noire” del minatore subito dietro, locandina dello spettacolo teatrale della sera prima.
«Sono le cinque del mattino dell'8 agosto 1956. Il sole spuntava in cielo e la giornata si annunciava come deve essere una bella giornata d'estate». Sono parole scritte da Frans Lowie, belga fiammingo, uno dei dodici sopravvissuti del disastro di Marcinelle. Un diario di dieci pagine scoperto da poco e pubblicato nei giorni scorsi dal quotidiano De Morgen. Le cinque del mattino, ed è partito presto, Frans, come faceva sempre. «Il mio compagno Bidlot Louiz mi aspettava fuori di casa. Dopo qualche minuto è passato l'autobus che come ogni giorno, ci ha portato a Marcinelle». Cioè qui, dove oggi (ieri ndr), cinquant'anni dopo, tanti di loro si sono dati appuntamento, quelli salvati perché destinati a turni diversi, quel giorno, e quelli risparmiati dalla silicosi, negli anni a venire.
Dentro al Bois du Cazier ci sono famiglie intere, tanti giovani, ciascuno legato a un parente rimasto là sotto, cinquant'anni fa. Come quel ragazzo, che appena entrato nel museo, individua il pannello con le piastrine di riconoscimento, si avvicina insieme al padre e incominciano a guardarle una per una, con una certa frenesia, fin quando lo trovano, il numero 170, Opdebeek Louiz, e la frenesia, se possibile, aumenta. Ci sta almeno una decina di minuti, il ragazzo, a lottare col riflesso che rimbalza sul vetro. Prova da ogni lato a immortalare il nome di quel parente, dall'alto e alla fine, dopo un'infinità di scatti, se ne andrà sconsolato.
«Mica lo puoi raccontare com'è stare là sotto. Ci devi essere stato, in fondo alla mina, per capire cos'è», continua a ripetere a tutti il vecchio con la barba bianca, l'accento bergamasco e il foulard rosso. Lo fanno ridere, a lui, tutti i vari amministratori di stato, regioni e comuni, arrivati fin quassù, a Marcinelle, per questi cinquant'anni. Quelli come lui, sceso per la prima volta là sotto a sedici anni, a 1180 metri di profondità, e che di colleghi morti ne ha visti a decine, quelli come lui, il cuore lo hanno lasciato laggiù. Nella mina, come loro chiamano la miniera. Belgi come italiani.
Anche se in Italia tutto è passato nell’indifferenza - quasi – assoluta. Non qui a Marcinelle. Qui non vogliono dimenticare. Come quel vecchio, alto alto, sorridente sorridente, vestito da minatore, con caschetto e tutto il resto. Lungo il percorso verso non so dove in tanti gli chiedono una foto. Gli ultimi, una coppia di anziani, dopo il clic gli domandano in francese di dov'è. Italiano. Di dove. Provincia di Vicenza. Dove. Caldogno. E la donna scoppia in lacrime. Li lascio lì. Abbracciati ai loro ricordi. Al ricordo di un giorno in cui, cinquant'anni fa, qua sotto, scoppiò l'inferno.
Fonte:
www.ilbrescia.com
Foto:
www.indymedia.be[Modificato da jay.ren 09/08/2006 13.52]