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Shiny happy people [racconto]

Ultimo Aggiornamento: 15/12/2006 22:02
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Altri Racconti: Shiny happy people

All in the golden afternoon
Full leisurely we glide;
For both our oars with little skill,
By little arms are plied,
While little hands make vain pretence
Our wanderings to guide.
(Lewis Carroll)


Aveva due occhi di un azzurro chiaro come l'acqua più trasparente, pochi capelli bianchi corti intorno alla cima nuda del capo, media statura, sempre elegante, verso gli ottanta e con la freschezza di un ragazzino che ti aspetti si alzi per ballare da un momento all'altro. Si era avvicinato a me alla fermata del bus vedendomi tenere in mano, con qualche difficoltà, da una parte la pianta della città, gli orari e il biglietto del bus, dall'altra Dubliners e un vocabolario di italiano. Amava l'Italia e gli italiani, l'italiano in modo particolare, linguisticamente parlando; il vocabolario di italiano era uno dei suoi libri preferiti. Si chiamava James Coppingham, dublinese. Prendevamo lo stesso bus.
"Le case di mattoni a nudo hanno una particolarità", mi disse, seduto di fianco a me, guardando fuori sul bus che percorre in volata Gardiner Str. prima di svoltare a destra in Dorset Str. per impantanarsi nel singhiozzante traffico delle cinque ("L'ora in cui si dice che di là dal mare gentili signore in abiti confetto sorseggino il the spettegolando amabilmente in compagnia di burrosi biscotti", l'aveva definita un giorno in fluente italiano, "Mentre i loro mariti vennero in Irlanda, si presero tutto, lasciarono solo la lingua, qualche foglia di the e non un solo biscotto").
"I mattoni di quelle case non sono uguali uno all'altro. Sono fatti allo stesso modo, nello stesso luogo, per avere lo stesso colore. Ciò non basta. Ognuno subisce diversamente le ingiurie del tempo, ha proprie screziature, macchie differenti di umidità o di fumi di scarico. Sarà solo l'immagine d'insieme a suscitare una sensazione simile da una casa all'altra come di una pelle variamente conciata, con i suoi riflessi di luce? Sarà solo ad uno sguardo distratto che può sfuggire la totale differenza di ogni facciata, di ogni mattone da tutti gli altri?"
James si faceva di queste domande prima di scendere, come quella volta, alla sua fermata. Io proseguivo fuori città. Le espressioni forbite che uscivano dalle sue labbra per esercitare nuove conquiste linguistiche suonavano di una delicata saggezza.
I miei giorni a Dublino, in quella piovosa estate verso il mio trentatreesimo compleanno, scorrevano come pinte di birra sui banchi dei pubs, solo apparentemente uno la copia identica dell'altro. L'effetto in crescendo si scopre solo alla fine. Quando non pensavo al tempo che credevo stessi perdendo, le cose, diverse cose, mi accadevano; quando ci pensavo, allo spreco delle mie giornate, cose accadevano comunque intorno a me. Poco distante dalla mia stanza, una piccola mansarda lanciata come una sonda incontro ai cieli d'Irlanda e alla loro esultante irrequietezza, M. V., la mia landlady, si apprestava a divenire la scrittrice conosciuta dalla Terra del Fuoco alle steppe siberiane, dalla regione dei Grandi Laghi americani all'arcipelago indonesiano, che oggi è diventata.

Conobbi M. V. (Maddalena Vivacchiarezza. Almeno, cosi si faceva e si fa chiamare. Ma, non essendo sicuro che fosse giá allora, nome originale o d'arte, preferisco chiamarla M. V.. Rende anche più fluida la lettura. Né si confonde con sigle impresse nei recessi della retina, quali MM, PC, CD, McD. C'è nel Maryland una nota agenzia matrimoniale, Marriage with Views. Se ci fossero lettori di quello Stato, sappiano che il riferimento è del tutto casuale) alcuni anni fa all'aereoporto di Dublino. Non fu del tutto per caso. Una comune amica italiana, sua collega in una multinazionale nord americana e mia compagna di giochi d'infanzia aveva collegato i nostri due fili. Il mio, la ricerca di un alloggio temporaneo, il suo, una stanza disponibile.
Dal finestrino dell'aereo che atterrava ebbi per qualche istante la sensazione di arrivare nel paese di Lilliput. La terra ci veniva lentamente incontro tra gli squarci e sotto l'ombra delle nuvole, ma queste non si decidevano ad avvicinarsi ancora, come fossero appena sospese sopra i campi e gli alberi, un abito soffice che ricopre la pelle ombreggiandola. La limpidezza dell'aria era tale da ingannare su qualunque distanza, mentre nuvole basse facevano delle cose là sotto giocattoli che allungando una mano si poteva raccogliere, case di gnomi e folletti, o discendenti non troppo lontani. Una hostess scolpita nell'avorio e avvolta in un onda di acqua smeraldina con occhi brillanti come una lama passò a controllare le nostre cinture.
Fuori dall'aeroporto M. V. mi aspettava con la sua auto. Si poteva credere al primo sguardo che anche lei fosse imparentata con qualche creatura stregata, un incrocio inconsueto, una specie di anatroccolo nero, non brutto, al contrario con un fascino tutto suo, che la distingueva da chiunque altro. In effetti M. V. è italiana, era irlandese d'adozione, di auto-elezione. Ed è di due estremi nord e sud del paese che è come dire di due capi del mondo, l'Alta Valtellina, aspirazione disillusa e instancabile alla florida Svizzera, la Sicilia meridionale, nostalgia barocca e arresa di un tempo mitico da mille e una notte. Si presentò con i suoi capelli lunghi e neri raccolti sul capo e riportati indietro come un samurai, un abito nero di velluto con la vita alta che scendeva come mini gonna a frange per donne incinta. Questa, insieme a pantaloni leggeri giallo e verdi che spuntavano sotto il velluto e finivano un po' sopra le caviglie e una borsetta di pelle rosa, creava la figura di una creatura ibrida, un po' pavone, un po' pinguino, un po' gazza ladra. Gli occhi due piccole perle nere. Un lungo sottile sorriso rosso attraversava il viso evidenziandone il chiarore.
In auto attraversammo il paesaggio che circonda a nord la città: capannoni, distese di piccole abitazioni affiancate una all'altra, prati ora curati di un verde intenso ora campi abbandonati, qualche filare sparso di alberi. La piccola cittadina di Swords, dove raggiungemmo casa, era in mezzo a questo territorio, un tappeto srotolato a disegni regolai ma senza armonia, tra la vecchia Irlanda contadina a ovest e il mare a est. La casa di M. V. era all'estremo nord ovest di Swords, l'ultimo villaggio residenziale, Castleview lawns; il castello era lontano, i prati non si lasciavano desiderare. Uscendo sul giardino retrostante, un riquadro verde immancabile in ogni casa come l'aria per respirare, si poteva vedere sulla sinistra, là dove finiva la fila di case di fronte, aprirsi un tratto di campagna. Un giovane leccio dalle fronde curve verso est per l'abbraccio pressante del vento stava al centro davanti ad un campo di orzo che saliva come un'onda a coprire l'orizzonte. Quando il vento tirava con forza, le spighe piegate davano l'immagine di una pelle di leopardo con macchie dai contorni mutevoli come un mare in tempesta. Oltre il campo le nuvole accompagnavano il sole al tramonto inebriandosi dei suoi palpiti cadenzati. Il tutto si stagliava con tale nitidezza nell'azzurro del cielo che immaginavo di essere in una prateria nord americana attraversata dai primi coloni irlandesi. Calato il sole, l'orizzonte ai suoi ultimi tiepidi arrossati bagliori mi ricordava l'Africa orientale. Nel prato di M. V. spiccava un piccolo esile melo da cui pendeva la sua prima stagione di frutti, sette mele rosse ancora acerbe; in quello a fianco uno stenditoio a forma di piramide ribaltata piantato nel terreno con un palo centrale contro gli scherzi del vento, attendeva la prossima folata per girare su se stesso e mostrare un'altra delle sue facce addobbate, nobile spaventapasseri decaduto, o che una giovane e bella ragazza nigeriana uscisse a cambiargli l'abito.
Un paesaggio di frontiera. Io e l'Irlanda in quel paesaggio ci assomigliavamo. Non sapevo ancora esattamente se fossi venuto lá per cercare un lavoro redditizio in un paese in crescita già sull'orlo della crisi, un posto migliore dove vivere, un'ispirazione letteraria per una vocazione latitante, una distrazione da alcuni insuccessi, una fuga da una donna che sapeva amare solo dalle dieci alle undici della domenica mattina quando io amavo uscire per il giornale e un caffè; ero insomma l'esponente medio di una generazione che non aveva ancora deciso se valeva la pena farsi carico dei destini di un mondo irrimediabilmente sottosopra o dedicarsi dell'irrimediabile caos del destino proprio. Oppure, come rispondevo a chi me lo chiedeva, ero venuto per condurre una ricerca per conto di una rivista femminile al Trinity College di Dublino a proposito di un rituale praticato da donne kikuyu intorno ad un ficus sacro nel nord del Kenya. Fui poi distratto da una novella degli stessi Kikuyu. In essa si narra di un guerriero che partì per sfidare e catturare il sole, di un curioso patto con il sole per salvare il suo popolo, del potere delle parole, di qualcosa a che fare con il ciclo della vita, che non capivo, e forse di altro ancora. Poteva sembrare una ragione precisa; meno evidente era cosa c'entrasse l'Irlanda. Anche a me non convinceva del tutto. Ma chi non è stato in Irlanda non sa di un paese che conosce un clima mite, un'aria alpina, una luce mediterranea. Quando non piove, evento raro. Ciò contribuisce a rendere i suoi abitanti di un umore frizzante e indolente allo stesso tempo, toccati da una specie di gaia follia. E' in Irlanda che i cieli del mondo si ritrovano per sperimentare forme, disegni, colori. Un posto dove possono accadere cose inaspettate. Anche io, nell'estremo nord ovest di Swords, estremo nord ovest di Dublino, estremo nord ovest d'Europa, estremo nord ovest dell'anima, avrei desiderato incontrare il sole ed essere fatto da lui partecipe di un qualche segreto.
M. V. era arrivata in Irlanda come attratta da un pifferaio magico, inseguendo un mondo fatto di musica, allegria e spontaneità, e per liberarsi dalle secche in cui riteneva arenati i suoi concittadini isolani. Dei migliori di questi non aveva perso però il gusto greco per la meditazione e un senso per i piaceri della vita quale si ritrovava nel giardino di un sultano qualche secolo fa. Era una leonessa dalla criniera nera e dalla pelle morbida d'oca. Una mattina, diversamente del solito, si era svegliata presto, si era raccolta i capelli in un elastico rosa, aveva mostrato un viso eccessivamente cordiale ma così intimamente esultante da non apparire ambiguo a chi la salutava, ed era volata verso Dublino. Il pifferaio si era poi personificato in un giovane dublinese, Robert Finnegal, un ragazzo non alto ma forte, capelli chiari, occhi azzurri striati di grigio in armonia con i cieli irlandesi, i tratti del volto marcati, non privo di fascino. L'aveva amata e lei aveva amato lui. Avevano avuto un figlio, Max. Lui non aveva una passione per la paternità, come fosse l'insofferenza per un ricordo affollato, il ricordo di essere stato figlio. Quindi aveva lasciato lei e il figlio per tornare ad un'esistenza senza eccessive incombenze quotidiane. Compariva saltuariamente per trascorrere qualche pomeriggio con Max, il quale lo adorava e per il quale il padre appariva un eroe che sapeva ascoltare, ridere e giocare con lui, anche se stranamente incostante e sfuggente. Max, che aveva allora cinque anni, era uno dei bambini più vivi, desiderosi di sapere e cocciuti che avessi mai conosciuto. Anche dei più rompiscatole. Si tuffava verso fondali immaginari dove le piccole cose quotidiane divenivano ridicole oppure giganteschi personaggi meravigliosi. Chiedeva di animali esotici, di persone lontane, di come si facesse una televisione o una nuvola, della morte e di dopo la morte. Di ogni cosa. Come tutti i bambini. Ma la sua sensibilità e il suo coraggio mi colpivano. Mi trascinava con lui nell'inventare storie, e io stavo al gioco finché la madre non lo richiamava all'ordine.

Poteva capitare nella giovane colonia di Swords che qualcuno organizzasse un party per occasioni speciali quali il compleanno di un bimbo o un anniversario di matrimonio o altro di simile, cui invitare qualche vicino di più o meno recente acquisizione. M. V. fu invitata ad uno di questi e mi propose di andare con lei. Poiché era un evento raro, e ancora più raro che sia io che lei uscissimo di casa, accettai volentieri. Una coppia arrivata da poco voleva farsi conoscere e offrire la sua ospitalità. Lei era una immensa donna greca, di Salonicco, con gli occhi castani e i capelli tinti di biondo, una specie di Ercole al femminile o valchiria del sud, lui un dublinese snello, riflessivo e ironico, dai gesti circoscritti e pacati, un Bogart irlandese, sempre con un sigaretta tra l'indice e il medio della mano destra. Specialista al barbecue. C'erano una dozzina di invitati, per lo più coppie con figli piccoli. Sulla brace in giardino passavano a ritmo continuo salsicce, costine e bistecche. Catini colmi di bottiglie di birra immerse in acqua ghiacciata segnavano il quadrato del giardino insieme alla staccionata. Il pomeriggio trascorse allegramente con i pargoli che si rincorrevano mentre poco sopra la loro testa si rincorrevano bicchieri e salsicce. Avvicinandosi la sera, il cielo si rannuvolò e una aria fresca calò sulla tavolata in giardino. Sedevamo io, Peter Kentigern, un uomo robusto dal viso tondo, la barba sottile e scura sul bordo del mento, gli occhi verde acqua come di chi a guardato a lungo il mare in attesa che ricompia una sirena, un conversare stretto e borbottante coma la risacca sugli scogli, Brian Banba, un uomo imponente dalla pelle rosa chiara come un neonato, due occhi piccoli come due perline di vetro azzurro conficcate in un massiccio viso squadrato, e Robert, il padre di Max, che si era aggiunto da poco. Si parlava di come in questo paese costruire una nuova strada risultasse un'impresa come conquistare la luna e degna dello stesso orgoglio, un'impresa altamente simbolica al punto che, dopo aver assorbito tutte le energie per mesi o anni, alla fine rimaneva il simbolo, l'opera era già vecchia o curiosamente inutile. Osservai come gli irlandesi non fossero gli unici a potersi vantare di tali imprese. A ogni frase, a ogni parola, quasi a ogni silenzio, il volto di Brian si accendeva in un brivido di ilarità, un tale gaiezza da contaminare ogni cosa accadesse intorno.
"Non ti manca il buon umore", gli dissi stupito dalla sua gioia di vivere.
"Oh si, è normale. In Irlanda diciamo crac, gioioso, divertente. Crac come la droga, ma ha effetti migliori e non costa nulla", disse Brian sempre ridacchiando e movendo il capo su e giù.
"Ci deve essere un trucco lo stesso", proseguii incuriosito.
"O no, nessun trucco. Solo, le cose basta vederle leggere, come quella schiuma di birra", sorseggiando la sua aranciata. Era astemio.
"Già, ma se le cose sono sempre le stesse, la stessa vita intendo, altro che leggerezza, ti piove tutto in testa", disse Peter, con un sorriso dolce e amaro insieme. Brian trovò la pioggia in testa molto divertente, e così anche noi.
"Certo bisogna avere la mente libera, non pensare troppo ai problemi. Meglio non averli. Guarda Max, se entra in un disco pub con lui hai tutte le ragazze intorno!", disse sorridendo Robert, e fece una faccia ironicamente compiaciuta. Gli occhi brillarono sul viso magro, fermandosi appena prima di un velo di malinconia.
"C'è uno scrittore praghese che ha una strana teoria", disse M. V. che dopo un felino avvicinamento a questo tavolo di sciolta convivialità maschile, si era seduta per partecipare. "Si chiama Kundera. Dice che la vita, non solo la vita, la storia dell'uomo, la vita di ognuno, sarebbe qualcosa di pesante e opprimente se si ripetesse sempre, continuamente, come un eterno ritorno. Quello che accade una volta te lo puoi dimenticare, può volare via, perdersi nel tempo, confondersi nel tutto, così, come una foglia d'autunno. E per questo la vita dovrebbe sembrarci leggera, spensierata. Se invece si ripetesse, se ci fosse davvero l'eterno ritorno delle cose, ti ricorderesti tutto per forza. I tuoi gesti assumerebbero un significato che non puoi più cancellare... E' strano, no?"
"Da quando affronti temi così profondi?", disse Peter sogghignando.
"Perché non vi capita mai di leggere un libro?"
"E' vero, è vero. Io, per esempio, continuo a ricevere lettere che mi dicono che devo finire di pagare i debiti. La trovo una vera mancanza di gentilezza", disse Brian provocando ancora l'ilarità generale.
"C'è anche un filosofo, si chiama Hume, un inglese naturalmente", disse Peter riesumando qualche nozione filosofica per fare il verso a M. V., "che diceva che non possiamo avere nessuna certezza che domani il sole sorgerà di nuovo. Questo dovrebbe essere confortante per la tua teoria."
"Sfottete, sfottete. E comunque non era una mia teoria", rispose M. V. quasi difendendosi o interrogando se stessa tra le generali espressioni di buon umore.
Giunse sul tavolo una torta al cioccolato con candeline, rivelando il motivo vero della riunione, il compleanno della padrona di casa. Pensavo al mio guerriero kikuyu che incontrò il sole. Il sole gli disse che non avrebbe dovuto rivelare del loro incontro, che il suo popolo avrebbe dovuto d'ora in poi chiamarlo con un altro nome. Quello vecchio non gli piaceva. Altrimenti sarebbero morti sul colpo. Da quel giorno, grazie al guerriero, il nome con cui chiamare il sole cambiò. Un giorno, il guerriero disse ai figli che era stanco di vivere, che era troppo vecchio, di dividere i suoi averi tra loro, e che il giorno dopo sarebbe morto. Al mattino, appena sorse il sole, lo chiamò con il vecchio nome, e nello stesso istante morì. Non so se c'entrasse con i discorsi fatti poco prima. Pensavo alla capacità degli uomini di giocare, di giocare con le regole del gioco, alla magia delle parole, alla tenerezza di quel guerriero, alla sua lealtà e forza d'animo anche nel momento più difficile. Lealtà che permetteva al ciclo della vita di proseguire indisturbato come un'alba nella savana.
Ad un certo punto Robert si alzò con aria di chi sta per salutare. M. V. gettò gli occho su di lui e come per rincuorarsi gli chiese conferma del fatto che lui avrebbe preso con sé il bambino per due giorni. Si ricordeva, vero, che lei la sera successiva avrebbe avuto l'inaugurazione della sua prima mostra collettiva? Era un'occasione unica per lei, da mesi lavorava sul mondo del flamenco, il suo tema per un concorso europeo, La danza immobile della fotografia. Avrebbe anche potuto cambiare qualcosa per lei. Non avrebbe potuto, almeno quel giorno, dedicarsi a Max. Da settimane glielo aveva chiesto. Robert, porpio lui, non poteva non capirlo. Robert annuì. Perché le scocciature, quando meno le desiderava, gli piombavano addosso? E con esse l'imbarazzo di doversene districare? Con qualche lieve molleggio delle gambe e delle spalle per scrollarsi il peso della situazione, disse che gli dispiaceva, che anche lui aveva un lavoro nuovo da cominciare fuori città, che non poteva essere sempre a disposizione di tutti, che la madre era lei. Quest'ultima cosa risultava incontrovertibile anche a M. V.. Un onda di rabbia le scaturì dalle profondità dell'addome su per lo stomaco, le squarciò il centro del petto e le inondò il viso. Era troppo grande per uscire e infrangersi su di lui. Gli disse che non le poteva fare questo, era inguisto, era... Aveva tutti intorno, il pudore le sottraeva le parole. Si girò puntando i gomiti sul tavolo. Il vino rosso di un bicchiere si riversò sulla grossa pancia di Peter.

La sera mi raccontò la sua storia, la loro storia; e io la mia. Andammo indietro nel tempo di generazione in generazione tra briganti, pastori, cortigiane, poeti, letterati, puttane, sfaccendati, spacciatori, principi, scienziati, coglioni e impiegati delle ferrovie alla ricerca di un punto che potesse improvvisamente orientare ogni cosa, o almeno qualcosa, una bussola, una strada maestra senza lavori in corso e deviazioni, un monolite da un'altra galassia per infonderci una nuova intelligenza. Tutto ci apparive straordinariamente comico. La pancia dolorava per il troppo ridere. Lei mi piaceva. Un frutto esotico che ricorda qualcosa di casa. Il suo sguardo sprofondava dentro l'abisso dei gesti smarriti e un momento dopo era lanciato in orbita a cavallo di un raggio di sole squarciando lembi di nubi e scacciando i luoghi oscuri come stormi di uccelli spaventati da una corsa in un campo di grano. Lei mi piaceva. Non feci nulla. Parlai d'altro. Le dissi che se la vita è un romanzo, lei aveva pronto un best seller. Le dissi che era come avere in tasca il biglietto vincente della lotteria o che l'ultimo biglietto dell'ultima lotteria, quando era quasi tardi, aspettava di essere acquistato da lei. Si sentì presa in giro, ma le piaceva l'idea che se la serietà esaurisce le sue forze, scherzare sulla la vita può dare buoni frutti. Propose una scommessa. Se le avessi scritto una recensione all'altezza del suo romanzo ancora non scritto, subito dopo ci avrebbe messo mano. Forse fu quella sera che la vocazione che aspettavo si avvicinò, mi sfiorò. Poi si accorse di lei, e la scelse al mio posto.
I giorni seguenti cercavo ispirazione percorrendo a piedi Dublino da un capo all'altro, da Ballsbridge a Rialto, da Howth alla Huston Station. Attraversai viali appariscenti, parchi fioriti, quartieri malfamati, strade desolate, canali inquinati frequentati da anitre e cigni immensi, fumi di friggitorie dove giovani asiatici erano catturati dagli olii bollenti mentre gestori italiani annoiati guerdavano verso la strada. Mi fermai sull'Ha'penny Bridge per ascoltare il vento più intenso sull'acqua del fiume. Le case basse della vecchia città sembravano intimidite da ció che passava loro di fronte. Sentii un tonfo dietro di me. Girai il viso indietro. Vidi James Coppingham steso per terra che tentava di rialzarsi.
"Tutto bene, James?", gli chiesi.
"Oh, Carlo! Come stai? I tuoi studi?", mi rispose mentre lo aiutavo ad alzarsi.
"Abbastanza bene, grazie. Ma che è successo?"
"Oh, no. Solo un'attimo di debolezza, sono scivolato. Niente di male. Può succedere. Può succedere." Fece un espressione di dolore mettendosi una mano sul petto. Tossì. E tossì ancora, più forte.
"Andiamo a sederci da qualche parte?", proposi.
"No, no. Stiamo un'attimo qui. La vista è buona."
Ci appoggiammo insieme al parapetto del ponte guardando verso il mare nascosto da nuovi palazzi e dal porto mentre il sole del pomeriggio indorava la superficie delle cose.
"Molti uomini", cominciò dopo un periodo di silenzio, "vivono come se un momento unico della loro vita sia inchidato da qualche parte dentro di loro e come se, a causa di esso, qualcosa sia stato loro tolto. Loro sono ancora lá ancorati a quel momento, a quel fardello, alla loro Rosbad, come il personaggio di Orson Wells, conosci? E spesso perdono il filo che li teneva in contatto con esso, la loro Arianna. Glielo leggono gli altri, dagli sguardi che indugiano, dai gesti che sfuggono."
Tacemmo per qualche istante. Poco distante da noi, un uomo magro, pochi capelli e poca barba, dagli abiti polverosi e consunti, avanzava barcollando. Era ubriaco. Si fermò a osservare con occhi persi una ragazza giovane in tuta rosa che passava spingendo con una mano il passeggino, e parlava al telefono con l'altra. Il bimbo nel passeggino teneva un sonaglio vicino all'orecchio facendo suoni con la bocca. La salutò che giá era oltre il ponte.
"Forse un giorno", continuò, "magicamente come si è avverato, l'incantesimo si scioglierà, si scioglierà l'ormeggio e il ciclo dell'esistenza, potrà riprendere la sua danza. Il problema è se sia possible aiutare l'incantesimo o accorgersi che sia stato sciolto. Certi piaceri della vita sono lì a ricordarci questo ciclo della vita, del ritorno, del volere di nuovo. Lo stesso atto sessuale, il suo chiedere ancora. Sono lì per dirci che non c'è nulla verso cui si debba davvero andare, nessuna meta oltre noi. Solo da volere di nuovo ciò che è stato, ció che siamo stati. Da quel volere nascerà un'energia nuova, un modo nuovo di vedere le cose. E' la vita che vuole ancora la vita. Non trovi?"
Ero affascinato, ma non mi era molto chiaro. Dall'altra parte della strada un uomo con un basco nero, ampi occhiali da sole, la pelle nera, aveva iniziato a suonare un sax soprano. La custodia dello strumento era per terra aperta a un passo da lui. Erano le note di O Sole mio. Mi ricordò la commozione per due personaggi teatrali di un'attrice argentina e una giapponese che dal palco con la stessa canzone porgevano il cappello allo spettatore. Corsi a lasciargli qualche spicciolo. Tornai e trovai James che canticchiava il secondo pezzo.
"Uno dei miei pezzi preferiti, Nearness of you. Celebre, magica l'interpretazione di Ella and Louis", mi disse.
Il vento, più tagliente, accompagnava una luce che dall'oro passava dolcemente all'arancione e al bronzo. Mi voltai verso di lui per chiedergli se conoscesse Kundera, e riaggrapparmi al suo discorso. I suoi occhi erano umidi. Specchiavano confondendolo il corso d'acqua davanti a noi. Non dissi nulla.
"Si, anche io... avevo un figlio. Già. Non so più dove sia. Andò via un giorno con la madre. Li ho lasciti andare. Era molto tempa fa...", disse lui. Poi tacque di nuovo. Staccatasi da un occhio, una goccia di fiume gli attraversò i solchi del viso.
Rimanemmo fermi non so per quanto. La limpidezza dell'aria mostrava tutte le sfumature in quel passaggio di luce. Aria, luce, acqua, case, passanti, tutto era una cosa sola.

La sera seguente, di una giornata umida e stanca di vedere transitare nuvole grigie dai riflessi bluastri, cosi basse che sembra di poterlo toccare il cielo, e non è il cielo che si tocca, solo il suo pesante persistente respiro, lui suonò alla porta.
Lei sedeva sulla vecchia poltrona di legno massiccio con le impronte delle innumerevoli tazze di the appoggiate sui bracciali, i lunghi neri capelli le avvolgevano la fronte e le guance come per proteggerla da cattivi pensieri o proteggere dai suoi cattivi pensieri il mondo intorno. Aveva appena finito di dare la cena a suo figlio, uscito fuori a giocare. E lo aspettava. Il vento fuori cresceva con l'ombra umida della sera, gli esili rami del melo si dondolavano animosamente sotto al peso di mele quasi mature. Lei le guardava come fossero il suo stesso cuore che chiunque avrebbe potuto tenere nella propria mano e raccogliere se avesse voluto, come i suoi stessi desideri che per qualche incompresa ragione non volevano più maturare. Lo stenditoio del giardino vicino iniziava la sua danza rotatoria, si vedevano gli orsacchiotti in pigiama delle lenzuola, poi i jeans a fiori colorati, poi un largo abito color terra a striature gialle e nere e grandi occhi di felino, e insieme mutandine e calzini; indeciso su quale lato mostrare come i tarocchi di un solitario confusi nel vento. Lei con il gesto tondo di entrambe le mani si raccolse le ciocche laterali dei capelli dietro le orecchie e si alzò per aprire. Lui aveva una camicia bianca aperta con brevi tagli decorativi orizzontali come branchie che facevano intuire la pelle bruna delle braccia e una maglietta bianca.
"Ciao Mad", disse con il tono di sempre, quel tono di chi non vorrebbe avere nulla di cui stupirsi.
"Ciao", rispose lei, "ti aspettavo ieri. Max chiedeva tutto il giorno di te." La voce le usciva come il suono di una corda allentata e appena percossa che vorrebbe fare un arco, rimbalzare nel vuoto e tornare su se stessa.
"Ho lavorato tutto il giorno".
"E dove dovevi lavorare per non fare in tempo nemmeno a passare o a telefonare?".
"A Maynooth."
"Ok, qual'è il problema? Prendevi la macchina ed eri qui in un attimo."
"Max!", chiamò il padre, ma il piccolo era di là dalla vetrata e non si era accorto del suo arrivo.
"Robert, non puoi fare sempre quello che vuoi", disse lei, appoggiata con la spalla allo stipite della porta della sala, con una voce che vibrava diversamente dal solito seguendo con lo sguardo lui che appoggiava del pane e del vino in cucina e apriva il frigo cercando qualcosa, tentando con disinvoltura impacciata, che lei conosceva bene, di divincolarsi dalla predica di lei.
"Okay, okay... Max!", ripeté il padre, "Che differenza ti fa se è ieri o oggi o domani..."
Si mosse verso la sala che dava sul giardino, senza rivolgerle lo sguardo e senza vedere la fiamma sottile e chiara che le era corsa sotto le ciglia lievemente piegate verso il basso. Quando il piccolo Max si accorse del padre, si girò verso la vetrata della sala per andargli incontro, il viso attraversato da una piega degli occhi che faceva intendere che il dispiacere per il giorno prima non era del tutto cancellato. Stava per volgersi in sorriso quando vide il padre dargli le spalle per guardare la madre, i due discutere in modo acceso e poi lei ripetergli qualcosa a voce alta e indicando insistentemente la porta di casa con il braccio e l'indice della mano allungati.
"Che succede? Perché improvvisamente te la prendi tanto? Me ne vado, ma ne vado! Come vuoi tu!", e si diresse da dove era venuto ciondolando e ostentando indifferenza verso l'aria addensata che doveva lacerare per raggiungere l'uscita. Lei lo lasciò passare senza muoversi, lui la sfiorò seguito da un lembo della camicia. Quel tremore dell'aria sul fianco di lei bastò per farle rivivere un istante il desiderio che lui si fermasse, la prendesse, la stringesse o la scrollasse, le facesse sentire il suo peso, la liberasse di quello di lei, le facesse sentire qualcosa. Come un tempo. Fu solo un attimo. Nel momento di oltrepassare la soglia, Robert ebbe come l'intuizione che qualcosa non tornasse, che qualcosa gli fosse sfuggito. Si voltò verso di lei che ancora lo cercava con l'angolo degli occhi, uno squarciò di notte di luna nuova. E uscì. Si sentì il tintinnare delle chiavi appese alla porta e il rombo del motore dell'auto che ripartiva.
"Dove è andato Daddy?", chiese Max che aveva raggiunto la madre.
"Ha dimenticato qualcosa, poi torna, forse domani...", rispose lei.
"Che cosa ha dimenticato?"
"Non lo sa, per questo se ne è andato. Non se lo ricorda."
Alzò di scatto il viso e annusò nell'aria. Qualcosa in cucina bruciava. Si lanciò verso i fornelli. Avevo lasciato qualcosa sul fuoco. Seguii tutta la scena attraverso la balaustra della tromba, o meglio trombetta delle scale. Proprio mentre Robert entrava mi stavo dirigendo dalla mia stanza in soffitta alla cucina al pian terreno richiamato dal profumo delle verdure fritte dimenticate sul fuoco che minacciavano il peggio. Arrivai sulle scale troppo tardi per poter attraversare l'anticamera prima che l'aria si facesse spessa come un denso sugo alle melanzane. Feci qualche passo indietro e mi fermai. Quando anche l'epilogo fu consumato, la raggiunsi in cucina di fronte alle verdure annerite. Lei, vedendo la mia espressione tra l'imbarazzo e la desolazione, scoppiò in una risata liberatoria, con il figlio che le saltava intorno divertito.
La mattina seguente era una di quelle rare mattine irlandesi in cui le nuvole si sono date appuntamento altrove, il cielo è nudo in tutta la sua scanzonata innocenza e il vento gioca a inseguire la luce. Qualcuno squillò alla porta insistentemente finché fui obbligato a scendere. Era Robert, mi chiese di M. V. e di Max. Essendo sabato dovevano essere a casa. Non c'erano. La casa era sottosopra, solo le due scarpe di casa di stoffa rossa di lei erano accostate sotto la vetrata che dava sul giardino. In cucina due biglietti erano appoggiati ai fornelli, uno per lui, l'altro per me. Prendemmo in mano ognuno quello dell'altro, ci guardammo, ce li scambiammo. Robert lesse il suo lanciando qualche imprecazione, sospirò, si passo la mano sulla barba incolta, sospirò, imprecò e se ne andò salutandomi già oltre la soglia. Il mio diceva: "Dovremo rimandare la scommessa. Non so quando tornerò. Chiudi tutto e lascia pure le chiavi nella posta. M. V."
Amo la brevità. Andai a guardare ancora una volta l'albero nel campo spumeggiante dei riflessi dei dardi solari e lo stenditoio dei vicini che la ragazza nera liberava per riempire di nuovo. Altri stenditoi di panni tutti viola, o verdi, o gialli sparsi intorno si dondolavano alle carezze del vento. Presi una mela ormai matura. Poco dopo ero già catapultato da un aereo verso le mie native latitudini con gli appunti della mia recensione di un libro immaginario persi tra le carte. Il bello dei rapidi trasbordi è il loro guaio, la rapidità. Cosa che non appartiene alla mia capacità di digerire la marea di fatti e pensieri, depositati come conchiglie, già ad attendermi a destinazione. Non so come evitare di avanzare come un gambero, come evitare di dare meno rilevanza a ció che è stato e che potrà essere, ed evitare di darne, stupidamente, di più a quello che non sarà, nonostante lo si continui ardenetemente a desiderare.

Non ho più rivisto M. V.. Diversi anni dopo un'amica giornalista mi chiese se conoscevo l'autrice di un fortunato romanzo autobiografico pubblicato in New Zeland e appena tradotto in italiano, una certa M. V.. Fu l'opera prima di narrativa più venduta quell'anno nel mondo occidentale e probabilmente non solo. Alla fine la scommessa l'abbiamo persa o l'abbiamo vinta entrambi. Si attende da poco l'imminente uscita del suo nuovo romanzo, dopo una lunga serie di pubblicazioni seguite al primo successo. Dopo la recensione che non poté leggere allora per un libro che lei non aveva scritto, ne scrivo una oggi per un libro che non conosco, sperando che lei la legga. Mi chiedo se non sia ancora una sfida alla legge del ritorno. Ma aveva davvero ragione Kundera? Non è davvero possibile un'altra leggerezza oltre a quella di eventi e cose irripetibili e perciò senza presa sulla memoria, senza peso? E' solo follia? Una leggerezza del ritornare, fatta della responsabilità irresponsabile di azioni il cui senso semplicemente non è loro prescritto da qualche tradizione in un inizio irripetibile del tempo, ma è tutto racchiuso in se stesso? La leggerezza per cui ogni giorno, da capo, è un nuovo inizio, in cui da capo dare un nome nuovo alle cose? Come il guerriero kikuyu fece con il sole?
Forse M. V. ha colto qualcosa di questo dilemma o conosce il segreto per coglierlo. Questa recensione, che non vorrebbe finire mai, si immagina essere un'onda che non smette di carezzare la grana brillante della spiaggia. Ma il natale si avvicina. Da un articolo sugli affittacamere irlandesi è uscita una strana storia. La rubrica Lodgers di tutto il mondo, scriveteci! riprenderà di nuovo dopo le feste. Come diceva il piccolo Max quando mi vedeva fare l'imitazione del gorilla per accompagnarlo a letto la sera, "again, again, again..."


Un racconto di Carlo B.
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