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Intervista a Serge Latouche

Ultimo Aggiornamento: 01/10/2004 17:48
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01/10/2004 17:48
 
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Nelle prime pagine di Giustizia senza limiti, leggo: "Le associazioni e le reti che, a torto o a ragione, pretendono di fare da contrappeso [alla potenza finanziaria delle aziende transnazionali] sono in larga misura strumentalizzate dai giganti dell'economia e della finanza. Una società civile mondiale non esiste." Può chiarire a chi sono rivolti questi rilievi critici?

Quando scrissi quel passaggio pensavo alle Ong. Pensavo, più precisamente, a quello che è successo a Rio e a Johannesburg.
A Rio [Conferenza dell'Onu sull'ambiente e lo sviluppo, 1992 - ndr] abbiamo visto le grandi imprese internazionali creare delle proprie Ong, per poter partecipare a questo movimento, per poter mettere lo zampino anche nella corrente delle Ong, e portare avanti le loro tesi anche in quest'ambito. D'altra parte, molte Ong dipendono fondamentalmente dai finanziamenti pubblici e privati, per cui la loro pretesa di rappresentare la società civile mondiale va presa con molta cautela. Beninteso, ci sono delle Ong che fanno delle cose egregie, ma molte altre Ong sono fasulle, sono di fatto delle organizzazioni governative o dipendenti dalle aziende, quindi di fatto sono schierate da quella parte.
Perché non bisogna mai sottovalutare la capacità di reazione dell'avversario. È una cosa che le aziende hanno capito benissimo: hanno capito che i movimenti ecologisti, i movimenti di contestazione della globalizzazione etc., potrebbero rappresentare una minaccia per il funzionamento del sistema sul quale esse aziende si basano, e quindi bisogna recuperare, lavorare dall'interno, fare in modo che anche in quei movimenti ci sia una voce sostanzialmente favorevole agli interessi delle aziende. Le Ong possono essere un cavallo di Troia per recuperare dei legami con questi movimenti.
È un discorso estremamente complesso. A Johannesburg [Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, 2002 - ndr] il World Business Council, che è l'organizzazione delle imprese per la conservazione dell'ambiente (ma che raggruppa tutti i più grandi inquinatori del pianeta, come Esso, Nestlè, Total, etc.) ha contattato Greenpeace, dicendo loro: "Guardate, una cosa è sicura, non saranno certo gli stati a salvare il pianeta". Questo discorso è interessante. Dice: gli stati non sono capaci di decidere nulla. Dunque se c'è qualcuno che può fare qualcosa siamo noi, o nessun altro. E perciò dovete lavorare con noi, bisogna lavorare insieme. Ora io non nego che ci possano essere dei responsabili di impresa che siano coscienti dei pericoli per l'ambiente rappresentati da un'attività industriale sregolata, e che quindi con loro si possano fare dei compromessi. Ma non credo che questi compromessi possano portare molto lontano, non credo che possano riguardare più che degli obiettivi limitati: ciò di cui c'è bisogno qui sono delle regolamentazioni, dei vincoli forti all'attività industriale, e una vera regolamentazione non può andare nell'interesse delle aziende transnazionali, oggi.

Criticando l'utilitarismo, lei cita spesso la famosa formula del filosofo scozzese del Settecento Francis Hutcheson: "La maggiore felicità per il maggior numero di persone possibile," a cui gli utilitaristi come Bentham e Stuart Mill appunto si ispirarono. Vuole tornare sull'argomento, e dirci cosa c'è di sbagliato in questa formula?

È una formula un po' assurda. Molto semplicemente, dal punto di vista logico, dire "la felicità maggiore per il numero maggiore" significa massimizzare due cose nello stesso tempo. O si ha la maggior felicità per un numero ristretto di persone, o c'è una certa felicità per la maggioranza - ma non si possono avere entrambe le cose. Se abbiamo due cose che crescono contemporaneamente, possiamo dare la stessa felicità a un numero sempre più grande di persone, e così avremo massimizzato il numero di coloro che godono di questa "felicità," oppure possiamo dare la più grande felicità, ma soltanto a qualcuno. In ogni modo, con il sistema attuale, in cui si realizzano profitti giganteschi, si può dare "la maggiore felicità" a un numero maggiore di persone solo perché si sono massimizzati degli elementi (insomma perché è cresciuta la ricchezza). Nel sistema dello Stato sociale, nessuno aveva profitti così giganteschi, ma tutti avevano un aumento misurato del proprio benessere. Insomma, è un sistema contraddittorio e assurdo.
E poi la formula è criticabile anche perché è un effetto della hybris, l'orgoglio smisurato che gli antichi greci criticavano appunto perché rappresenta l'eccessivo, ciò che non ha misura né limite. Ma che cosa significa poi "la maggiore felicità?" Io non ho bisogno della maggiore felicità, ho bisogno della felicità e basta. Essere felici è già sufficiente. Al limite, se anche volessimo parlare di dimensione, si potrebbe dire che non è male neanche una "piccola felicità." Ma in realtà quantificare la felicità è stupido. È evidente che questo atteggiamento apre la porta all'economicizzazione del mondo e all'economicizzazione dello spirito. Per poterla quantificare, la felicità deve essere ridotta al prodotto nazionale lordo, e questo è assurdo, stupido e pericoloso, anche perché gli effetti sono sotto gli occhi ti tutti.
Io credo che quando Beccaria utilizzò anche lui questa formula non fosse del tutto cosciente dei suoi effetti, dell'ipertrofia dell'economia che si andava preparando e che si sta realizzando pienamente oggi. Adesso nel dibattito, evidentemente, c'è una consapevolezza maggiore, ma le radici di questo atteggiamento risalgono ai tempi di Francesco Bacone. La colonizzazione dell'immaginario è un processo che ha ormai una certa storia, in fondo segna già l'inizio della modernità.

Lei critica la prospettiva universalista, cioè la pretesa della civiltà occidentale di imporre a tutto il mondo una serie di valori considerati validi per tutto il genere umano. Ma criticando l'universalismo, non c'è il rischio di cadere in un eccessivo relativismo? La difesa a oltranza delle culture particolari (come abbiamo già visto) non crea lacerazioni e conflitti in nome di una visione ristretta dell'identità?

Sono contro l'universalismo perché è una creazione dell'occidente, perché è un'ideologia occidentale, e una forma di imperialismo culturale: in fondo, è l'identità della "tribù occidentale" (per riprendere il termine di Rino Genovese). Io credo invece che dobbiamo valorizzare l'aspirazione a un dialogo fra le culture, a una coesistenza delle culture. Per questo alla prospettiva dell'universalismo opporrei piuttosto un "universalismo plurale," che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversità, e nel dialogo fra queste diversità. Dietro a tutto ciò sta una questione filosofica molto importante, perché l'universalismo si è fondato sulla credenza in valori "naturali": si pensa che i valori occidentali siano degni di essere diffusi ovunque, che siano migliori dei valori di altre culture, perché li si considera insiti nella natura dell'uomo, si pensa che l'occidente abbia espresso meglio di altre culture ciò che accomuna tutti gli esseri umani.
Naturalmente le cose non stanno affatto così: non ci sono e non ci sono mai stati "valori naturali," i valori sono tutti culturali, quindi semmai c'è c'è una diversità, che bisogna sostenere con il dialogo. Pensiamo alla cultura indiana. Per un indiano la vita di una mucca è fondamentale. Non si può uccidere una mucca. Noi invece, tanto per fare un esempio, a causa della mucca pazza abbiamo massacrato milioni di mucche. Ora, se vogliamo coesistere con gli indiani e rispettare i loro valori, dobbiamo capire che bisogna dialogare anche con le cose che non ci piacciono. Ci sono delle cose che fanno gli indiani e che a noi sembrano orribili, come ci sono cose che noi facciamo e che sembrano orribili agli indiani. Allora, dobbiamo accettare questa situazione, poi, una volta accettata la diversità possiamo anche negoziare, ma da uguale a uguale.
Il problema è che l'universalismo è una trappola, potremmo dire un "errore universale": noi abbiamo preso i nostri valori, considerati espressione di un modo di pensare "naturale," e abbiamo voluto imporli a tutti gli altri.

Be', è come dire (e mi sembra che qualcuno l'abbia detto) che tutte le culture sono uguali, ma ce n'è qualcuna che è più uguale delle altre…

Sì, è quello che diceva il mio amico Castoriadis. Io non ho mai accettato questa formula: ci sono delle culture che sono più potenti di altre, che possono imporsi alle altre, che possono anche distruggerle, ma più uguali di altre, via… Eppure questa formulazione è interessante, perché indica che in certe circostanze alcune culture possono, almeno in parte, prendere le distanze da se stesse.
Il problema è che la consapevolezza della propria cultura in una certa misura rende più difficile porre la questione della diversità delle culture. Insomma, il dialogo fra culture è necessario, ma bisogna essere consapevoli che al di là di un certo limite sarà un dialogo tra sordi. Certo, possiamo capirci perché condividiamo certe cose, ma questa comprensione non può mai essere totale, perché ognuno di noi è sempre all'interno di una cultura, e guarda i problemi in funzione della propria cultura. Non c'è una soluzione definitiva a questo problema: c'è solo il rispetto della diversità. Nel momento in cui si ha un minimo di rispetto, di tolleranza per l'altro, allora si può fare qualche passo avanti.

Che cosa pensa dell'elaborazione delle femministe a questo proposito? In fondo, è stato il femminismo che ha posto con più forza (e a volte anche con chiarezza) il problema dei limiti culturali, del "punto di vista" inevitabilmente parziale da cui ognuno di noi parla.

Sono d'accordo, con delle precisazioni. A volte vengo aggredito da qualche femminista, che mi rimprovera di non parlare delle donne. Be', rispondo dicendo che non ne ho parlato perché non sono una donna, siete voi donne che ne dovete parlare. Si comincia a parlare dall'"io sono," non è vero?
Secondariamente, c'è un malinteso su questo punto quando si apre un dialogo con altre culture, perché anche il femminismo è nato in una società occidentale, ed è nato a partire dalla visione individualista della nostra cultura, che sacralizza l'individuo a scapito delle altre dimensioni, di gruppo o anche personali. Per noi l'individuo è tutto, ma non è così per altre società, per altre culture, che spesso hanno una visione olistica, integrale, del rapporto fra gli esseri umani e il mondo.
Perciò riconosco la legittimità del movimento femminista all'interno del mondo occidentale, che concepisce la società come un'associazione di individui. È normale che in una situazione come questa le donne, per così dire, rivendichino la loro parte; ma al tempo stesso bisogna comprendere che può non essere lo stesso in altre società, in cui il rapporto fra i sessi, il rapporto fra uomini e donne, è concepito a partire da una visione globale: in queste società non è detto che le donne stesse maturino un punto di vista "femminista" all'occidentale. Malgrado tutto, siamo sempre alienati. Alienati può essere un altro termine per designare una situazione in cui tutto è formattato, in un modo o in un altro. Se non si è formattati in un certo modo lo si è in un altro. Da questo punto di vista l'individualismo è una forma di alienazione.

Nel suo intervento, oggi, lei ha detto che "il multiculturalismo è il cosmetico della mondializzazione." Può spiegare questa affermazione?

Mi riferisco a un certo discorso multiculturalista, quello, ad esempio, sviluppato dalle agenzie di viaggio, che promuove la "scoperta di nuove culture" come una cosa fantastica, e parla di una diversità che non si era mai vista nella storia dell'uomo. Questa è una forzatura, un errore storico. Il multiculturalismo non è stato una scoperta della modernità, né della postmodernità. Ci sono già state esperienze di convivenza tra culture diverse, e non così livellatrici come quella di oggi. L'antropologo Marco Aime lo dice bene. A Venezia, fra il XIII e il XV secolo, c'erano albanesi, c'erano ottentotti, che vivevano in certi quartieri, gli ebrei vivevano nel ghetto, ma non era una condizione realmente escludente. Nessuno era uguale, e ognuno era differente in rapporto al potere. Non voglio dire che tutto funzionasse, ma c'erano dei meccanismi di bilanciamento e di compensazione.
Quello che va demistificato è l'uso che si fa del multiculturalismo per nascondere il terribile dramma dell'uniformazione planetaria: la diffusione generalizzata di McDonald's, della Coca-Cola, di un modo di vita occidentale che viene presentato come ideale, e che colonizza le menti delle persone distruggendo al tempo stesso i loro mezzi di sussistenza. Quando si fa bere la Coca-Cola a delle popolazioni africane o latino-americane, si distruggono le imprese locali, l'artigianato locale, le tradizioni locale, in cui ci sono bevande particolari come succhi di frutta o succo di canna da zucchero, etc. La stessa cosa avviene per l'alimentazione, con McDonald's e il fast food. Questa è un'uniformazione culturale. E la stessa cosa avviene per la musica: si esalta la musica folk, la musica etnica, ma tutto ciò in realtà passa attraverso una formattazione hollywoodiana, americana…

Ma allora non è possibile un multiculturalismo che vada in un'altra direzione, che costruisca un vero dialogo fra le culture?

Bisogna capire che ogni cultura, in se stessa, è multiculturale. Ma lo è realmente, autenticamente, non perché si costruisce un discorso artificiale sulle culture "esotiche", che è solo uno specchietto per le allodole. Ogni cultura è multiculturale perché è necessariamente aperta agli apporti di altre culture. La sua identità sta nella pluralità. Quella che viviamo adesso, invece, è la distruzione di ogni identità, di ogni capacità di orientamento. All'interno della propria cultura oggi ognuno sta perdendo i propri punti di riferimento, nessuno sa più chi è, nessuno sa più a cosa credere: e questa è la porta aperta al totalitarismo, è così che si crea il potere totalitario. La gente diventa facile preda di più o meno astuti "imprenditori di identità." La cosa più grave è che tutto questo è già successo, e noi ce ne stiamo dimenticando. L'analisi che ha fatto Reich dell'ascesa del nazismo (utilizzando strumenti della psicanalisi e del marxismo), mostra bene che una delle cause principali di quel fenomeno fu che la classe media tedesca aveva perso tutti i suoi punti di riferimento, le sue difese. Perché i punti di riferimento sono anche delle difese immunitarie.

Lei crede che il movimento antiglobalizzazione sia in grado di cambiare - almeno in parte - questa situazione?

Non so se possa farlo nella sua forma attuale. Ma penso che questo movimento abbia già dato dei buoni risultati: è stato in grado di mettere in crisi alcuni progetti dei governi e delle aziende transnazionali, ha diffuso nell'opinione pubblica un certo numero di temi. Certo, è un movimento ben lontano dall'essere monolitico, unificato, è attraversato da contraddizioni le più varie. Ma penso che sia un movimento importante. Ma io confido anche in un altro antidoto, che è un modo di trasformare in ottimismo il pessimismo, ed è quello che io chiamo "la pedagogia delle catastrofi." Io sono sicuro che questo sistema mondiale abbia una indubbia capacità di autodistruzione. E credo che questa consapevolezza possa essere diffusa. Noi possiamo attrezzarci a vivere questo cambiamento, questa condizione, superando le tendenze alla distruzione, credo che possiamo costruire una sorta di laboratorio del futuro. E credo che questa oggi sia un po' la missione degli intellettuali impegnati.

(Ha collaborato Paola Ceretta)

Fonte: www.socialpress.it/article.php3?id_article=554
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"Where is the wisdom we lost in knowledge? Where is the knowledge we lost in information?"

T.S. Eliot
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