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Fila

Ultimo Aggiornamento: 14/06/2004 16:16
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Da "La Repubblica"

Un mozzicone di stadio, un progetto di ristrutturazione
ma qui il tempo si è fermato ai gol di Mazzola e Gabetto
Torino, la leggenda del Filadelfia
fra le rovine il mito granata

di MASSIMO NOVELLI



In apparenza oggi è la maceria di un campo di calcio che fu famoso, il mozzicone di uno stadio in cui si consumò, negli anni Quaranta, la leggenda di una squadra chiamata Grande Torino, sconfitta soltanto dal fato.

In realtà anche adesso, in attesa di una ristrutturazione che non è ancora cominciata e che comunque si porterà dietro più speculazione che effettiva rinascita, il Filadelfia, o Campo Torino, continua a essere, tra quei moncherini di curve e le altre ferite devastanti dell'abbandono, un luogo in cui il tempo si è cristallizzato.

Per tutti, pure per chi non vide mai giocarci i granata, non ascoltò la carica suonata dalla tromba del tifoso ferroviere Bolmida e non ribollì di emozioni per capitan Valentino Mazzola intento a rimboccarsi le maniche e dare così il via all'assalto alla porta avversaria, il "Fila" continua a significare mito che non muore, romanticismo, gioventù, lealtà. Passione e fede autentica, popolare, insomma, in qualcosa che va ben al di là dello sport.

Venne inaugurato il 17 ottobre del 1926. Il Torino, guidato da un presidente illuminato e ambizioso come il conte Enrico Marone Cinzano, stava per compiere il grande balzo e diventare una delle squadre di rango del campionato di prima divisione. Necessitava quindi di un impianto adeguato. Fu scelta allora un'area della nuova Torino, non distante dai posti in cui stava nascendo il quartiere del Mercato Nuovo, quello dei mercati generali della città. La prima gara che si disputò, Torino-Fortitudo Roma (finì 4-0 per il Toro, con doppiette di Gino Rossetti e di Julio Libonatti), fu foriera subito di gloria. I granata si aggiudicarono infatti lo scudetto, successivamente revocato per il noto scandalo Allemandi. Si ripeterono la stagione successiva, e questa volta nessuno poté portargli via il titolo di campioni d'Italia.

Fu tuttavia con il Grande Torino, che il presidente Ferruccio Novo aveva cominciato a costruire all'inizio degli anni Quaranta, che il "Fila" si trasformò da normale, pur glorioso, campo di football, in un pezzo di storia non soltanto calcistica del Paese. A scriverne l'epopea, a farne un terreno di gioco dove il fatto sportivo assumeva le dimensioni di un poema antico, furono certamente le gesta di Mazzola e dei suoi compagni, i loro cinque scudetti consecutivi, i formidabili quarti d'ora dello squadrone in cui qualsiasi avversario veniva travolto.

Ma, più di tutto, a creare la leggenda del Filadelfia fu soprattutto l'incredibile e magico connubio fra la squadra e il pubblico che gremiva le gradinate e la tribuna di legno. Meritatosi giustamente l'appellativo di "fossa dei leoni", lo stadio del Toro, grazie al calore della sua gente, divenne inespugnabile: in oltre sei anni, dal 17 gennaio '43 al sei novembre '49, i granata non vi furono mai sconfitti.

La tragedia di Superga, la morte del Grande Toro il 4 maggio del 1949, riportarono la società di Novo dall'Olimpo alla terra, ma non uccise le "vie dei canti" del Filadelfia. Pur nelle avversità, nei lunghi anni di magra e di miserie, fantasmi ed echi dei Campioni aleggiarono, infondendosi nei tifosi e nei giocatori. Tanto che tutti i granata che hanno pestato quell'erba, calcato il terreno a schiena d'asino, hanno sempre rammentato i brividi che li coglievano quando entravano nel sottopassaggio, quello percorso da "Bacigalupo, Ballarin, Maroso...", per sbucare in campo.

L'ultima gara di campionato che si giocò al "Fila" risale al 19 maggio del 1963: Torino Napoli 1-1, con rete del "Vecio", al secolo Enzo Bearzot, capitano che incarnò al meglio i valori granata. Poi, fino all'orribile soglia degli anni Novanta, quando il presidente Calleri decise di sbarazzarsi per sempre del Campo Torino, il Filadelfia si tramutò ancora una volta, facendosi fucina inesauribile di talenti su talenti. Uno di loro, Roberto Cravero, ricordò qualche anno fa che i ragazzi delle giovanili imparavano ad amare la maglia granata e il Toro respirando storia e mito dai muri di quegli spogliatoi ormai cadenti e da quei cimeli sempre più sparuti che raccontavano le imprese del passato, così come dai tifosi che consideravano quello stadio un tempio inviolabile degli affetti e della memoria.

Il Torino ha cominciato a essere meno Toro con la sciagurata dismissione del "Fila". Restano però i tifosi, vecchi e giovani. Sono loro a sapere che anche tra i rovi c'è la magia. A loro basta tagliare un po' di sterpaglie ogni tanto, per risentire le voci delle "vie dei canti", l'incitamento dalle gradinate stracolme, la tromba di Bolmida, i passi di "Baciga" Volante e del Barone Gabetto. E le "vie dei canti", per gli aborigeni d'Australia, sono le vie degli dei.


(11 giugno 2004)
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"Ninety per cent of my money went
on drink, fast cars and women...
I wasted the rest."
George Best
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