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Non terroristi, ma guerriglieri: assolti islamici

Ultimo Aggiornamento: 15/12/2005 18:11
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Dopo la sentenza di Milano
Il «moderato» tradito da un video dove spara
Le immagini riprese dal pentito Mohammed Tahir in uno
dei campi paramilitari del movimento "Al Ansar"

Il pentito Mohammed Tahir in una delle immagini del video
MILANO - Il «moderato» che spara con il kalashnikov nei campi di Al Ansar in Kurdistan. Il presunto innocente che viene arrestato nientemeno che dalla repubblica islamica dell’Iran. Il semplice falsario di passaporti che giura di non aver mai sospettato che i suoi amici Mohammed Atta e Ramzi Binalshibh stessero progettando (anche in casa sua) gli attentati-kamikaze dell’11 settembre. Fino a prova contraria meritano davvero l’assoluzione, ma proprio per questo è indubbio che avevano un curriculum sfortunatissimo i protagonisti della sentenza che, l’altro ieri, ha assolto cinque fondamentalisti islamici spiegando che hanno sì inviato guerriglieri in Iraq, ma questo non basta a definirli terroristi.
Nel passaggio centrale della motivazione, il giudice Clementina Forleo chiarisce che è provata la loro «comune appartenenza all’organizzazione combattente islamica Al Ansar». Ma aggiunge che «questa formazione era alquanto eterogenea», nel senso che «la svolta violenta verso l’utilizzo di kamikaze» era condivisa «solo da alcuni militanti», per cui non è possibile condannare tutti per terrorismo internazionale. L’argomento chiave, secondo il giudice, è che a fare queste distinzioni è lo stesso Mohammed Tahir, il curdo-iracheno di Parma che i pm milanesi hanno presentato come il primo pentito di Al Ansar, ma che in realtà, come rimarca il giudice, si autodefinisce «islamista moderato».
Il «rito abbreviato», che limita il giudizio ai soli atti scritti, ha però lasciato in ombra la storia del pentimento di Tahir: come, quando e perché un «fondamentalista» come lui ha deciso di collaborare con i pm? La risposta sta in un video, girato in Kurdistan dallo stesso Tahir: 78 minuti d’immagini-choc di guerriglieri armati di kalashnikov che inneggiano alla guerra santa in uno dei campi paramilitari di Al Ansar, gli stessi che nel 2003 sono stati rasi al suolo dai bombardamenti americani. Tahir se l’era portato in Italia per indottrinare nuove reclute. Quando la Digos gliel’ha sequestrato, ha pensato di non avere scampo: lui stesso si era fatto riprendere con il kalashnikov e a quel punto non poteva negare di far parte di Al Ansar. Di qui la sua sofferta decisione di patteggiare una condanna (che per ora è l’unica) per terrorismo internazionale: 1 anno e 11 mesi, da scontare tutti in carcere. Il video, beninteso, prova solo che Tahir era un guerrigliero, ma mette in dubbio che fosse davvero un «moderato», come lui giurava nelle confessioni che la Procura, per la verità, ha sempre considerato «parziali».
Tra i cinque imputati riconosciuti «non terroristi», il più pericoloso, secondo la Digos, era Drissi Noureddine, 35 anni, marocchino, che all’accusa sembrava una specie di «prova vivente»: dopo averne seguito il viaggio dall’Italia all’Iraq, la polizia lo ha intercettato mentre comunicava all’imam di Cremona, con un satellitare, il suo arrivo tra i guerriglieri antiamericani, con parole inequivocabili: «Noi siamo Al Ansar». Le sue intercettazioni, piene di violenza e odio contro gli infedeli, sono bastate ai giudici islamici dell’Iran per ordinarne, caso più unico che raro, l’arresto e l’estradizione in Italia.
Ora è detenuto solo per reati minori (passaporti falsi e immigrazione clandestina dei suoi guerriglieri) e dunque potrebbe uscire dal carcere al più tardi fra tre mesi.
Ancor più inquietante è il passato di Mohammed Daki, che uscirà lunedì da San Vittore perché ha già scontato tutta la condanna a 22 mesi. Prima dell’11 settembre, Daki viveva ad Amburgo, dove ha prestato la sua casa, per un anno, a Ramzi Binalshisbh: il superterrorista di Al Qaeda arrestato dagli americani nel 2002 come «pianificatore» dell’attacco alle Torri gemelle. Interrogato dai giudici italiani e tedeschi, Daki ha ammesso di conoscere Mohammed Atta, gli altri due piloti-kamikaze dell’11 settembre e tutti i loro presunti complici: «Ma io non sapevo che fossero terroristi». E finora nessuno ha potuto smentirlo, anche se il suo inquilino Ramzi è da quasi tre anni prigioniero (e stranamente collaboratore) dei servizi segreti statunitensi.

Paolo Biondani
Biagi Marsiglia
26 gennaio 2005 corriere




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.....ORIANA VIVE........

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